“Terre e libertà. Storia di sindacalisti uccisi dalle mafie” (edizioni LiberEtà, pp.176, euro 12,00) è un libro importante, che raccoglie storie di dirigenti e rappresentanti del movimento contadino e operaio vittime della criminalità organizzata dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. “Per la Cgil e per le forze di progresso – scrive Carlo Ghezzi nell’introduzione al volume – la lotta alle mafie, alle violenze, a ogni forma di illegalità antica o nuova hanno sempre rappresentato una delle grandi priorità, quasi una precondizione per poter puntare ad avere un ruolo e a svolgere una funzione per uno sviluppo diverso del Paese. Un impegno per il quale sono stati pagati pesanti tributi, che però hanno saputo conferire grande spessore e grande concretezza alla capacità del sindacato di guidare anche nei momenti più difficili, contro la mafia e contro le diverse forme di criminalità organizzata, le forze migliori del Mezzogiorno e dell’Italia”.

Impegno e tributi che il volume egregiamente racconta, unendo a una prosa scorrevole un’accurata ricostruzione storica. “Nella storia delle lotte sociali contro la mafia – si legge nel primo capitolo – si possono individuare tre fasi, distinguibili per alcune caratteristiche specifiche: la prima va dai fasci siciliani al secondo dopoguerra; la seconda abbraccia gli anni sessanta e settanta; la terza va dagli anni ottanta a oggi”. Queste tre grandi fasi rappresentano le sezioni nelle quali il primo capitolo del volume viene articolato. Ciascuna sezione è costituita da un testo introduttivo al quale fanno seguito brevi note biografiche dei singoli protagonisti: 41 per la prima fase, 6 per la seconda, 2 per la terza.

“Un conflitto mai terminato. Tredici storie per ricordarlo” è il titolo del secondo capitolo. Titolo esplicativo, chiarito ancor meglio nella nota introduttiva: “La storia d’Italia – vi si legge – è stata pervasa e condizionata pesantemente dalle mafie, che hanno contribuito ad alimentare, costruire e far sedimentare sistemi di potere tentando di impedire l’evoluzione sociale e politica del Paese. Questo racconto ha puntato a ricostruire e mettere in luce un’altra storia, quella di chi ha combattuto il fenomeno mafioso, arrivando a offrire molto spesso la propria vita”.

Il fatto è che la grande narrazione pubblica ha espunto negli ultimi anni dal racconto della lotta alle mafie il grande contributo ideale, politico, culturale e di sangue offerto dal movimento sindacale. “Un movimento – recita ancora la nota introduttiva – che si è da sempre battuto per il progresso sociale e civile del Paese e per l’emancipazione delle grandi masse contadine e lavoratrici. Nel corso di questa parabola il movimento sindacale si trova così a essere l’antagonista principale e naturale, forse l’unico insieme al Pci e al Psi nel dopoguerra, del fenomeno mafioso. Proprio per questo, a conclusione di questo lavoro, si è scelto di riportare alcuni profili biografici (1), alcune storie, alcuni volti, che si sono magari persi nel corso della grande storia, ma che hanno costituito quell’ossatura fondamentale nel contrasto al fenomeno mafioso, non arretrando mai rispetto all’obiettivo principale della propria lotta: l’emancipazione delle masse lavoratrici”.

Chiude il volume un elenco analitico  di uomini e di donne, “a partire dalla nascita dei fasci siciliani dei lavoratori fino ai giorni d’oggi, che, pur non avendo ricoperto incarichi sindacali, hanno sostenuto la causa e le ragioni dei contadini in lotta e per questo loro impegno hanno pagato con la propria vita …: medici, avvocati, amministratori e sindaci di piccoli comuni del profondo Sud del Paese …; sacerdoti, militanti del partito socialista, del partito comunista e dell’azione cattolica …, giovani presidenti di cooperative di contadini che coltivavano le terre incolte, e più recentemente delegati sindacali di fabbrica e braccianti extracomunitari vittime del caporalato e dello sfruttamento nelle campagne della Puglia, della Campania, della Calabria”.

Un lavoro importante, attento e meticoloso, frutto di accurate e circostanziate ricerche, che di fatto costituiscono un importante valore aggiunto al volume, che raccoglie in totale 54 biografie – 53 uomini e un’unica donna, Giuditta Levato, la “pasionaria” (2), prima vittima nel 1946 della lotta al latifondo in Calabria, uccisa da un colpo di fucile quando era incinta di 7 mesi del suo terzo figlio. Veramente pregevole l’appendice iconografica: tante sono le immagini riprodotte, frutto di scelte oculate e particolarmente mirate.

“Fare memoria – diceva qualche anno fa don Ciotti – è un dovere che sentiamo di dover rendere a quanti sono stati uccisi per mano delle mafie, un impegno verso i familiari delle vittime, verso la società tutta, ma prima ancora verso le nostre coscienze di cittadini, di laici e di cristiani, di uomini e donne che vivono il proprio tempo senza rassegnazione”.

Un dovere che questo libro ha egregiamente compiuto, attraverso un lavoro corale, un impegno collettivo coordinato da Aldo Gara e Roberto Battaglia (la prefazione è di Ivan Pedretti e Daniela Cappelli, l’introduzione di Carlo Ghezzi, i contributi di Francescopaolo Palaia, Roberto Battaglia e Dino Paternostro).

(1) Giuseppe Montalbano, Mariano Barbato, Giorgio Pecoraro, Giovanni Orcel, Nicolò Alongi, Giorgio Comparetto, Giuditta Levato, Giuseppe Casarrubea, Vincenzo Lo Jacono, Vito Pipitone, Calogero Cangelosi, Filippo Intili, Giuseppe Spagnolo, Carmelo Battaglia, Antonio Esposito Ferraioli, Hyso (Hiso) Telharaj

(2) Prima di morire Giuditta riuscirà a lasciare il suo testamento spirituale al senatore Pasquale  Poerio, che si era precipitato al suo capezzale: “Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti. Ho tutto dato io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io sono partita per un lungo viaggio, ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per vendicarmi. A mio marito dirai che l’ho amato, e perciò muoio, perché volevo un libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per cui ha tanto combattuto e sofferto. Ma tu, o compagno vai al mio paesello e ai miei contadini, ai compagni, dì che tornerò al villaggio nel giorno in cui suoneranno le campane a stormo in tutta la vallata”

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale