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Stimolato dal contributo di Giuseppe Amari sulla centralità della persona (“L’impresa etica e i pericoli di un nuovo Leviatano”, su Rassegna del 10 luglio 2018), mi sento di esprimere le seguenti considerazioni. Cosa ci aspetta? Cosa si aspetta! Nella vicenda che ha avuto come epicentro la nave Aquarius e i 628 migranti (tra cui oltre 100 bambini non accompagnati), ma anche in occasione dei successivi gravi episodi di omissione di soccorso in mare, non si riesce a percepire la presenza dell’uomo nel ruolo assunto dal governo italiano. Non si riesce a percepire in questo scontro tutto politico la presenza di persone che fuggono da dove non vedono futuro, come da Paesi come l’Eritrea e la Somalia in preda ancora alle convulsioni post coloniali.
In quelle vicende c’è il dramma di un padre, di una madre, di una famiglia che dopo aver fatto la colletta lanciano i propri bambini su un barcone tra le braccia di scafisti, schiavisti, nella speranza di offrire almeno a quei figli il futuro che non vedono a casa loro. Non si vede un abbozzo di politica d’accoglienza, ma solo di respingimento in questa politica muscolare che evoca l’uomo forte che finalmente dica “ci penso io”. È stata alimentata così la percezione che la drammaticissima crisi finanziaria che ha colpito nel 2008 il mondo globalizzato, e l’Italia in particolare, polverizzando il ceto medio e trascinandolo in basso nella scala sociale, si possa risolvere creando un nemico esterno cui addossare la responsabilità della situazione di chi non ce la fa. Ieri l’ebreo, oggi il migrante.
La rottura del vecchio modello geopolitico avvenuto con la caduta del muro di Berlino ha liberato la richiesta di diritti politici, di democrazia, partecipazione e lavoro della maggioranza dei popoli. Prima di quell’evento, l’umanità era divisa in tre mondi – quello occidentale, quello comunista e i non allineati –, all’interno dei quali si vivevano tre distinti livelli e stili di vita (sia sul piano politico che economico). Alto quello occidentale, basso quello comunista, infimo quello dei non allineati.
La caduta del muro ha portato con sé la caduta delle paratie che non facevano comunicare tra loro questi mondi. Come avviene tra vasi comunicanti, ora i tre modelli e stili di vita hanno iniziato a livellarsi. È il principio della fisica che si applica anche agli organismi e alle comunità umane. Il livello di vita occidentale ha preso a scendere, riducendo diritti e potere d’acquisto, mentre gli altri hanno iniziato a salire più o meno velocemente.
La libertà di movimento concessa solo ai capitali e non anche alle persone ha fatto il resto. Il punto oggi è che il liberismo economico ha ripreso il sopravvento, scalzando la dottrina keynesiana a partire proprio dalla metà degli anni settanta del Novecento. La diga dei diritti, baluardo di chi non ha ed è più debole, sta cedendo. Libertà, solidarietà, uguaglianza, i tre principi-valori usciti dalla Rivoluzione francese hanno viaggiato e viaggiano sempre più separati.
Ed è un guaio, perché è la loro contemporanea ed equilibrata applicazione che garantisce al meglio il prosperare di sistemi democratici nei quali il popolo, cioè i cittadini, tutti i cittadini, sono sovrani. Di tali principi, la libertà oggi ha preso il sopravvento su solidarietà e uguaglianza e viene percepita e vissuta sempre più come libertà senza limiti e senza bisogno di essere organizzata. Non solo. La percezione dell’uguaglianza è che siamo tutti uguali e quindi studio, competenza ed esperienza non fanno più la differenza.
In realtà, poi, questa percezione viene contraddetta ogni giorno, quando più o meno tutti ci rechiamo in farmacia – dal competente – per comprare un medicinale, mentre nessuno pensa di andare allo stesso scopo dal fabbro – incompetente –. Al contempo, la solidarietà, la fraternité, sembra essere diventata un sentimento e non più un valore. La percezione diffusa è che se ne debbano occupare le “anime belle”.
No. Libertà, uguaglianza e solidarietà si sostengono l’un l’altra, se non stanno insieme cadono. La presenza del capitalismo, meglio dell’accumulazione capitalistica in poche mani, ha rappresentato e rappresenta da questo punto di vista una pericolosa aggravante. È proprio per promuovere l’uguaglianza che un coordinamento di molte decine di reti nazionali, cooperative sociali, Ong e associazioni di volontariato hanno dato vita alla rete “Oltre il Pregiudizio” (www.oltreilpregiudizio.it), che facendo riferimento all’articolo 3 della Costituzione repubblicana, vuole contrastare, (in)formando, il pregiudizio che divide, categorizza e a sua volta fa nascere lo stigma, portando disuguaglianza ed esclusione sociale, da cui raramente e a fatica si riesce a uscire.
Per questo la libertà va organizzata, soprattutto quella economica, e va regolamentata sulla scorta proprio dei diritti, i quali sono nati per proteggere i più deboli dai più forti. Sindacati dei lavoratori, Terzo settore e volontariato, gran parte dei corpi intermedi, sostengono e organizzano la promozione e la difesa dei diritti. In questa situazione, vacilla la forma Stato e avanzano altre forme di organizzazione, parastatuali o direttamente malavitose, che potrebbero sostituirlo, addirittura dando sicurezza, identità e lavoro.
In un trentennio le principali aziende del mondo sono diventate quelle informatiche. Il tempo è stato messo in scatola, come un prodotto alimentare e queste scatole si chiamano Pc, tablet, smartphone. Il tempo di ciascuno, la vita, la storia di ognuno di noi è la dentro. Come fagioli nel barattolo. La crisi economica, che ha ridotto alla povertà e alla fame molte centinaia di milioni di bambini, donne e uomini, e l’analfabetismo, sia quello tradizionale che quello digitale, stanno producendo accaparratori, malavitosi e furbi, che utilizzano scorciatoie illegali, corruzione, sfruttamento e schiavitù.
C’è ancora la possibilità di continuare a far trionfare la democrazia e la partecipazione se questa nuova civiltà informatica si pone e rimane al servizio dell’uomo, come strumento, come oggetto e non come soggetto del progresso umano. Gli scambi e la ricerca, Marco Polo e Galileo Galilei, hanno dato una grande spinta al progresso, ma non bastano. C’è la “relazione” tra uomini e donne, tra comunità e culture, c’è l’arte, che insieme al “tempo liberato” possono farci progredire, ma non nella direzione indicata in questo periodo dall’economia liberista, dove tutto ha un prezzo e niente ha valore.
Allora, cosa si aspetta? Questo è il momento dell’utopia, della visione di un futuro altro e di come costruirlo mettendo al centro l’uomo. Ma per fare questo, occorre la politica. La politica che guarda al presente organizzando il futuro, che assume il compito di dare le regole, farle applicare e rispettare. Naturalmente, non basta. Anche ciascuno di noi ha la responsabilità di fare sempre al meglio il proprio lavoro, dove si trova e qualunque esso sia. Usiamola questa responsabilità. Ogni giorno. È il modo per progredire culturalmente ed economicamente, eliminare parassitismo e schiavitù, valorizzare i diritti e guardare al futuro senza l’angoscia di cui parlava il filosofo Søren Kierkegaard, quella creata dalla libertà di scelta tra più opzioni.
Gianni Palumbo, economista sociale e saggista, è presidente del network educativo Fiore e promotore di “Oltre il Pregiudizio”
Qui i link agli altri interventi sul dibattito aperto dal contributo di Giuseppe Amari:
- Se l’impresa smette di essere associazione e si converte in merce, Stefano Zamagni
- Qualche riflessione sulla metafora aziendalistica, Giovanna Leone
- La compartecipazione contro la tirannia dell’impresa etica, Attilio Pasetto
- E se fosse giunta l’ora di uno “Statuto dei luoghi di lavoro”?, Riccardo Leoni
- Natura e ruolo dell’impresa: perché ripensare i fondamenti, Anna Grandori