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Si avvicina il Def e la sessione di bilancio per il governo e si prefigurano le prime ipotesi (pensioni, flat tax, reddito di cittadinanza, investimenti). Si riflette anche sui vincoli europei, ma in realtà non sono mai discussi con la dovuta credibilità. Sebbene il Fiscal compact sia decaduto e la Commissione europea abbia avviato una riflessione sul tema, questo governo ha rinunciato alla discussione per quanto possa sembrare strana la puntualizzazione.
E del resto, il ministro Tria non ha mai criticato il modello econometrico (ingegneristico) utilizzato dalla Commissione per stimare l’output gap (crescita potenziale) e, quindi, il cosiddetto pareggio di bilancio strutturale. Tanto rumore per nulla? Forse. Innanzitutto, corre l’obbligo di insistere su un punto: la valutazione dei bilanci nazionali fatta dalla Commissione europea utilizza due parametri, indebitamento strutturale e debito.
Non solo. La valutazione si fonda su un modello che con il passare degli anni avvicina il Pil potenziale a quello reale, ovvero l’indebitamento nominale tende ad avvicinare quello strutturale (1). Seguendo il ragionamento della Commissione, non solo l’Italia ha occupato tutto il lavoro potenziale, ma qualsiasi manovra-misura per incrementare il reddito disponibile genererebbe solo maggiore inflazione. Tesi ardita e discutibile, ma le più recenti proiezioni della Commissione per l’Italia sottolineano quanto segue: se nel 2014 il nostro Paese poteva contare su un Pil potenziale del 4,5%, nel 2018 l’output gap sarebbe pari a 0,1 punti percentuali; mentre nel 2019 dovrebbe contrarre la crescita reale dello 0,5 per evitare rischi inflazionistici (2).
L’indebitamento e il debito pubblico, in questo modo, inseguirebbero gli obbiettivi di “pareggio” giocando a rugby, ovvero passando la palla sempre all’indietro. Naturalmente, si può guadagnare terreno, ma alla sola condizione di coinvolgere tutta la squadra (anche l’Europa). La discussione politica e/o giornalistica sul possibile superamento del 3% del deficit pubblico, introdotto con il Trattato di Maastricht, sembra fumo negli occhi per evitare al governo e alla Commissione di ridisegnare i criteri ingegneristici del Fiscal compact. Pensare male si fa peccato, ma qualche volta ci si imbrocca.
Le scelte economiche da fare sono ovviamente difficili; è facile dall’esterno puntualizzare e criticare, ma è abbastanza strano che il ministro Tria abbia rinunciato all’elaborazione dell’ex ministro Padoan, che ridiscuteva (criticava) i criteri di valutazione europei del deficit strutturale. Infatti, utilizzando modelli diversi (Ocse), l’Italia da tempo non solo avrebbe il pareggio di bilancio strutturale, ma sarebbe anche in attivo.
Come già ricordato, l’output gap di crescita dell’Italia per il 2019, ma non solo dell’Italia, da negativo diventa positivo. Questa proiezione della Commissione europea condizionerà l’evoluzione della legge di bilancio per il 2019. L’Italia non potrà contare sulla differenza tra Pil potenziale (3) e Pil reale nella determinazione del saldo di bilancio strutturale, che, secondo la Commissione (previsioni), salirebbe al 2% nel 2019. In questo modo, l’obbiettivo di pareggio di medio termine diventa non solo difficile, ma irraggiungibile. Con un ulteriore paradosso: l’indebitamento nominale del Paese sarebbe più contenuto dell’indebitamento strutturale: rispettivamente, per il 2019, 1,7% e 2%.
Se l’argomento è già complicato di suo, dobbiamo purtroppo introdurre un’altra variabile: gli obbiettivi tendenziali inseriti nel Def di aprile. Relativamente al 2019, il deficit nominale indicato nel Def è pari allo 0,8% del Pil, mentre il deficit strutturale è pari allo 0,6%. Se le previsioni della Commissione sono corrette e le proiezioni del Def sono la cornice per la legge di bilancio, senza considerare le potenziali flessibilità che l’Europa potrebbe concedere (4), la riduzione di spesa o le maggiori entrate per il 2019 non possono essere inferiori a 20 miliardi, solo per centrare gli obbiettivi concordati con l’Ue.
Il fatto è che, indipendentemente dagli obbiettivi del contratto di programma, che hanno un costo, la manovra economica vale almeno 15 miliardi, escludendo per il momento le clausole di salvaguardia (12,5 miliardi di euro) che il ministro Tria intende disinnescare. La manovra economica diventa, quindi, estremamente complicata senza ulteriori margini di flessibilità. Se poi consideriamo le minori entrate (2,5 miliardi) legate alla minore dinamica del Pil, la maggiore spesa per il servizio del debito (4 miliardi) e le spese obbligatorie (3,5 miliardi), il quadro di riferimento diventa abbastanza stringente. È evidente insomma che se non cambia il quadro di riferimento, rischia di scomparire persino il sentiero stretto dell’ex ministro Padoan.
È sicuramente possibile rimodulare molte delle spese in essere – il bonus Renzi, che vale 10 miliardi, i benefici strutturali alle imprese, pari a quasi 9 miliardi, un ridisegno della cosiddetta tax expaditures, che coinvolge 466 sconti fiscali, corrispondenti a minori entrate per 55 miliardi di euro ecc. –. È un lavoro difficilissimo, ma sarebbe il caso di migliorare almeno l’allocazione delle risorse pubbliche, affinché sia possibile aumentare l’effetto della stessa.
(1) L’indebitamento del bilancio pubblico nominale è valutato (misurato) con il cosiddetto Pil potenziale. Tanto più è alto il Pil potenziale, tanto più l’indebitamento pubblico sarà contenuto. Sul tema si veda anche: http://sbilanciamoci.info/fiscal-compact-un-appuntamento-non-mancare/
(2) European Economic Forecast, luglio 2018, Institutional Paper 084
(3) Teoricamente dovrebbe essere maggiore di quella reale, ma il modello di previsione Ue immagina un Pil potenziale minore di quello reale
(4) Qualcosa in realtà è già avvenuto. La manovra correttiva aggiuntiva per il 2018 per ridurre il deficit strutturale di 0,6 punti percentuali di Pil, differenza tra il tendenziale e il programmatico concordato con l’Ue, non sembra far parte della discussione che Italia ed Europa hanno avviato
Roberto Romano, dipartimento economia Università di Bergamo