Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nel n.3-4 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

 Le numerose riforme che da oltre vent’anni hanno riguardato il sistema pensionistico italiano, sebbene considerate necessarie per la sua sostenibilità finanziaria, hanno tuttavia sollevato vari dubbi circa la coerenza del percorso seguito dal legislatore. Le modifiche normative hanno avuto effetti su tutti i lavoratori, ma le ricadute maggiori riguardano i giovani e la parte più debole della popolazione. Senza sicurezza sul futuro reddito da pensione, i giovani mostrano una crescente sfiducia verso il sistema pubblico, evadendo quando possibile gli obblighi contributivi, e dando, in generale, scarsa importanza al risparmio previdenziale.

Il rallentamento dello sviluppo iniziato prima della fine del secolo scorso e gli effetti negativi sul reddito e l’occupazione della successiva lunga crisi hanno ancor più minato la fiducia delle nuove leve dei lavoratori. Con carriere precarie, mercati instabili e andamenti dell’economia difficili da valutare, chi matura pensioni con le sole regole del metodo contributivo, o anche con fondi complementari a capitalizzazione, ha oggettive difficoltà a quantificare i futuri importi e ha il timore che aumenti il rischio di maturare una pensione insufficiente ad avere condizioni di vita dignitose da anziano. Ma l’innalzamento dei requisiti anagrafici per il pensionamento sta mettendo in difficoltà anche le leve dei lavoratori di età più avanzata, che rischiano di rimanere per lunghi periodi senza reddito da lavoro e senza pensione.

La solidità finanziaria di un sistema previdenziale può essere valutata con il rapporto tra spesa per pensioni e Prodotto interno lordo, valore usato in sede europea per confrontare i sistemi previdenziali dei Paesi membri. Dagli anni antecedenti le riforme, l’Italia mostra un quadro con dinamiche diverse. Fino al 1997, il peso della spesa per pensioni sul Pil è aumentato in misura rilevante, da un iniziale 10,8% al 13,2%. Nel decennio seguente, dopo le modifiche legislative che hanno frenato il numero e l’importo medio delle pensioni, la quota è invece rimasta stabile su valori prossimi al 13%. Dal 2008, con l’esplodere della crisi economica, la spesa per pensioni sul Pil è risalita fino al 15,5%, con cenni di assestamento solo nell’ultimo triennio, quando si è avuta una lieve ripresa della crescita economica.

Analizzando i tassi medi annui di variazione nei tre periodi si ha conferma del fatto che l’andamento del rapporto tra spesa per pensioni e Pil è condizionato dalla spesa solo negli anni antecedenti le riforme, quando essa cresceva al netto dell’indicizzazione del 4,5%, mentre la dinamica reale del Pil era inferiore all’1,5%. Nei periodi successivi, la spesa per pensioni risulta molto rallentata, a conferma dell’efficacia delle riforme degli anni novanta e dei successivi interventi, con variazioni medie annue poco superiori a un punto percentuale in termini reali, mentre il rapporto rimane stabile o peggiora solo in conseguenza della mancata crescita del Pil, e addirittura della sua variazione negativa negli anni della crisi.

Le proiezioni di lungo periodo del modello della Ragioneria generale dello Stato confermano il forte impatto delle riforme. Da tale modello si ricavano due importanti indicazioni. La prima riguarda i tracciati riferiti a fasi successive delle modifiche legislative, che convergono negli anni finali della proiezione (2060) su valori analoghi a quelli iniziali, sottolineando il ruolo fondamentale del calcolo contributivo voluto dalla riforma Dini nel 1995. Il secondo aspetto di rilievo che emerge dalle proiezioni riguarda l’entità dei risparmi di spesa: questi indicano fino al 2040 valori medi tra la legislazione attuale e quella precedente il 2004 di circa 24,8 miliardi di euro annui, dei quali 11,7 miliardi derivanti dalla sola legge Fornero del 2011.

Conferme del ruolo delle riforme vengono anche dalle gestioni previdenziali, dove si vede che l’equilibrio dei conti non dipende solo dall’andamento della spesa, ma anche dalle entrate contributive, che, crescendo in modo sostenuto dopo la riforma del 1995, hanno concorso in misura importante al miglioramento dei saldi fino al 2008. Non solo. Il peggioramento negli anni della crisi appare motivato non tanto dalla spesa pensionistica, che varia a tassi contenuti, ma dalla contrazione delle entrate contributive che sono strettamente correlate, attraverso l’occupazione e i redditi, all’andamento del prodotto lordo.

L’analisi dei conti della previdenza mostra dunque che le riforme attuate sono state rilevanti per la sostenibilità finanziaria del sistema, e che gli effetti sono in parte oscurati solo dalla prolungata caduta della crescita economica, che, se non trova rimedi, mette a rischio l’intera struttura della protezione sociale. Considerazioni diverse possono invece essere fatte sulle carenze tuttora presenti nel sistema previdenziale italiano. Sotto questo profilo, i punti più critici riguardano le parti del sistema dove si generano eccessivi squilibri nella protezione e dove permangono livelli di rischio che, condizionando i comportamenti delle persone, generano impatti distorsivi sull’intero sistema economico. Le riforme, infatti, per ragioni di gradualità e a causa di una diseguale distribuzione del potere negoziale nella platea dei lavoratori, hanno lasciato alcune parti numericamente rilevanti con un insufficiente grado di protezione.

A tal riguardo, il punto su cui si concentra di più l’attenzione è quello delle pensioni basse, cioè di prestazioni che, se non sono supportate da trasferimenti di tipo assistenziale, non assicurano le persone dal rischio di povertà. Nell’ordinamento italiano coesistono tuttora ben sei diversi strumenti di sostegno al reddito in età di pensione che, nell’insieme, non determinano però un quadro equo e coerente, dal momento che promanano da norme diverse, rispondenti a situazioni anche temporalmente specifiche. La stessa natura concettuale di tali sostegni appare confusa, perché adotta a volte requisiti previdenziali, pur avendo natura assistenziale, oppure eroga somme in accordo agli anni di contribuzione, ma correlate al reddito secondo una logica assistenziale.

Il quadro d’insieme si presenta perciò disarmonico, limitato e non equo nei trattamenti e con un’inutile pluralità di schemi che andrebbero uniformati. La Legge di bilancio 2017, salvo un parziale rafforzamento della “quattordicesima” e alcune misure che dovrebbero ridare spazio alla flessibilità in uscita compromessa dalle norme del governo Monti, non ha considerato la possibilità di riformare le misure di sostegno delle pensioni basse, per puntare a un’armonizzazione dell’intero sistema. Pur rilevando lo sforzo compiuto nel tentativo di risolvere situazioni socialmente gravi come quella degli “esodati”, anche in questo caso non mancano aspetti che sollevano perplessità.

Tra questi, per fare qualche esempio, la durata temporanea e il tetto di spesa della cosiddetta Ape, sia volontaria che sociale, o il calcolo della prestazione nel caso della “opzione donna”, scelte poco conciliabili con diritti soggettivi già maturati. Tutto ciò, oltre a ingenerare una varietà di situazioni normative in contrasto con l’idea di armonizzare il sistema, non sembra far compiere significativi passi in avanti sul terreno della sicurezza, cioè della funzione primaria che non può essere disattesa in un percorso di ammodernamento di un sistema di protezione sociale.

Gianni Geroldi, economista, già professore ordinario di Scienza delle finanze