È realistico perseguire la riduzione degli orari nella precaria situazione dell’industria italiana? Sì, è anzi necessario, per distribuire l’occupazione, attenuare la fatica e anche migliorare l’efficienza del lavoro. Nel cuore della cintura industriale torinese, lo afferma la gran maggioranza dei delegati (Rsu e Rls) della Fiom di Collegno partecipanti a un apposito modulo formativo e a una “ricerca sul campo”, svolta con strumenti quantitativi (questionario) e qualitativi (focus group).

Edi Lazzi, responsabile per i metalmeccanici Cgil della Lega di zona, ritiene di vitale importanza alzare lo sguardo dalla pur preziosa attività di resistenza quotidiana: “Non possiamo solo rincorrere l’agenda imposta dalle imprese, dobbiamo avere chiari i nostri modelli, le nostre proposte. E non basta la teoria: per incidere sull’organizzazione del lavoro dobbiamo essere competenti e concreti”. In molte imprese la flessibilità dei turni peggiora, i ritmi accelerano, gli orari si allungano, con straordinari, taglio dei riposi, penalizzazione di assenze e congedi. Questa dinamica non fa che aggravare disoccupazione e sottoccupazione (part time involontari ecc.).

Alla lunga non giova neppure alle imprese, che non sono incentivate a investire e a innovare. In altri paesi la riduzione degli orari anima il dibattito pubblico, in Italia pare finalmente riemergere dall’oblio, grazie agli economisti di Sbilanciamoci! “Partiamo da due punti fermi: così non va, si può fare diversamente – dice Lazzi –. Il modello novecentesco di produzione non è più sostenibile, la riduzione degli orari non è un’utopia, ma una misura molto pragmatica. Affrontiamola senza preconcetti e rigidità”.

La ricerca non ha valore generale (ha coinvolto meno di 100 soggetti), ma fornisce uno spaccato illuminante della sensibilità di uomini e donne che compongono il corpo vivo del sindacato. Oltre tre quarti giudicano faticosi o molto faticosi sia gli orari (durata), sia i ritmi (intensità) del proprio lavoro. Va un po’ meglio per la flessibilità dei turni (63%), perché alcuni conservano la turnazione omogenea. Se deve scegliere una sola dimensione da migliorare, più della metà indica la durata, i restanti si dividono tra intensità e flessibilità.

Distinzione degna di nota, i ritmi di lavoro hanno maggiore rilievo tra gli Rls e le donne; il dato non è in contraddizione con l’alto consenso alla riduzione degli orari, che è semmai una via indiretta e complementare per contenere disagi e patologie di prestazioni sempre più intense e “saturate”. L’orientamento pro-riduzione associa al benessere individuale l’obiettivo collettivo e solidaristico della piena occupazione. L’intramontabile slogan “lavorare meno lavorare tutti” ottiene un plebiscito: su una scala da 1 a 10, il consenso medio è di 9,5.

Emergono del resto numerose
traduzioni pratiche: nel contesto di crisi prevalgono i contratti di solidarietà difensiva, ma non sono mancati i tentativi di favorire nuove assunzioni contenendo gli orari, talvolta con successo. Gli effetti sull’efficienza produttiva sono difficili da stimare, ma si riconoscono spazi di miglioramento: nessuno valuta che nella propria azienda si lavori già in modo ottimale, uno su cinque denuncia palese inefficienza.

Le culture del “downshifting” non sembrano sfiorare questi soggetti, per oltre tre quarti operai, gli altri tecnici e impiegati. Il valore del lavoro non viene messo in discussione; anzi, si manifesta una forte adesione a capisaldi etici tradizionali: “L’ozio è il padre dei vizi” ottiene un voto medio di 7,8. “Il lavoro è un dovere sociale” 8,5. “Senza lavoro non c’è dignità” 8,9 (qui il consenso femminile è inferiore, grazie forse a un’identità personale più sfaccettata).

Ma dalla ricerca emerge anche altro. Un terzo della platea cade in un malizioso tranello, esprimendo consenso per l’affermazione “Il 1° Maggio sarebbe giusto celebrare la Festa del lavoro e dell’impresa”, di cui era stata omessa la fonte, il ministro Poletti. Attenzione dunque al linguaggio: il “lavoro” viene invocato come passe-partout da chiunque e per qualsiasi scopo, fino a sostituire i “lavoratori” e identificare l’interesse generale con quello delle imprese.

Al di là di queste distinzioni, emerge un fertile terreno di incontro con l’ecologismo nel rifiuto di mercificare il prezioso tempo di vita per alimentare la corsa dei consumi. Oltre il 90% respinge il motto dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy “lavorare di più per guadagnare di più” e concorda con l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica, secondo cui “quando compro qualcosa non lo compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito a guadagnarli”.

E qui veniamo anche alle note dolenti. Se l’orizzonte a cui tendere è chiaro, nessuno ignora gli ostacoli sul cammino: le difficoltà non sono riconducibili soltanto ai rapporti di forza e alle resistenze delle imprese. Nelle fabbriche, tra i colleghi dei lavoratori coinvolti, è pressante la richiesta di salario, anche a costo di orari prolungati e turni disagiati, con scarso interesse per le rivendicazioni immateriali, quali salute, benessere, conciliazione.

Spesso è difficile contrattare perfino i limiti degli straordinari, data l’ampia disponibilità di personale “volontario”.  Non solo. Anche la solidarietà vacilla. Nella finzione cinematografica di “Due giorni, una notte”, dei fratelli Dardenne, la protagonista deve convincere i colleghi a rinunciare al premio di risultato per evitarle il licenziamento; quasi lo stesso copione si è presentato nella vita reale: un delegato ha organizzato il blocco degli straordinari per forzare l’azienda a stabilizzare i lavoratori interinali, ma è stato insultato e minacciato dai propri colleghi. Punta di un iceberg dove gli egoismi si confondono e talvolta si travestono da bisogni (“ho le rate della macchina”).

Lazzi: “Siamo consapevoli delle difficoltà, ma queste non ci paralizzano. Le lotte per orari e condizioni di lavoro non sono alternative a quelle per il salario. E comunque ci sono già esperienze positive”. Il riferimento è alla discreta diffusione di accordi di secondo livello sugli orari ridotti individuali: part time (54%), banca ore (45%), permessi e congedi (40%), turni agevolati per lavoratori anziani o con patologie (26%).

Una delegata illustra un accordo simile a quello siglato in Ducati, con una forte e generalizzata riduzione degli orari tradotta in giornate di riposo. Come intimava Emilio Pugno, invece di mettere il “lievito sulla merda” di ciò che non va, demoralizzandosi, i delegati si confrontano sui risultati positivi ottenuti, traendone spunti tattici e visioni strategiche. Concordano su due condizioni di successo: una fase di cambiamento organizzativo delle imprese (nuove produzioni, riorganizzazione dei processi...), un sindacato maggioritario preparato e coraggioso. Insomma, non basta vivacchiare.