“Nord e Sud uniti nella lotta”. Reggio Calabria, 22 ottobre 1972, cinquantamila lavoratori che arrivano da ogni dove – a organizzare la manifestazione sono Fim, Fiom e Uilm, i sindacati degli edili e la Federbraccianti Cgil –, per dire a una città incattivita da una rivolta cieca e senza costrutto (casus belli il capoluogo regionale assegnato a Catanzaro), con i fascisti, i “boia chi molla” di Ciccio Franco da mesi a capeggiarla, che la strada della “rinascita” deve essere un’altra; e che è innanzitutto grazie alle forze del lavoro, alla loro unità, che la questione meridionale può trovare una risposta.

La manifestazione, fortemente voluta da Bruno Trentin, con Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto leader dei metalmeccanici (insieme a loro è in città Luciano Lama, alla guida degli edili Cgil c’è Claudio Truffi, della Federbraccianti Feliciano Rossitto), preceduta da una Conferenza sul Mezzogiorno e da assemblee nei quartieri di Sbarre e Santa Caterina – santuari degli irriducibili –, si svolge in un clima a dir poco faticoso: a causa dei sentimenti con cui tanta parte dei reggini si preparano ad accogliere i partecipanti, delle provocazioni che hanno agitato la vigilia – le bombe esplose nella notte sulla ferrovia – e dei timori di attentati lungo il percorso dei pullman. A garantire che tutto proceda per il meglio un servizio rigorosissimo di vigilanza, attivato già, sempre alla vigilia, sulla strada ferrata e le colline prospicienti la statale 18 che da Rosarno conduce a Reggio.

I primi pullman cominciano ad arrivare al mattino presto. Nella notte sono atterrati due aerei, uno da Trieste e l’altro dalla Sardegna; da Genova e da Napoli, intanto, si attendono due navi. Sono viaggi faticosi ma pieni di passione, animati da discussioni accese, i giovani da una parte, gli operai e i sindacalisti più anziani dall’altra. “Il mare forza 7 e noi, sull’Eleonora d’Arborea, a chiederci se era stato giusto o meno portarci giù, insieme alle bandiere rosse, il tricolore”, raccontava Mauro Passalacqua, a lungo dirigente della Cgil ligure, all’epoca delegato poco più che ventenne dell’Elettronica San Giorgio di Sestri Ponente, nell’aiutarci a ricostruire la giornata di Reggio per il Mese di Rassegna in occasione del 150esimo dell’unità d’Italia. “E i nostri dirigenti, tra loro molti ex partigiani, a dirci che si era fatto bene, che doveva esserci anche il tricolore, che non potevamo lasciarlo ai fascisti”. Il tricolore, a significare che si era un solo paese. E la presenza massiccia dei lavoratori del Sud, innanzitutto i ragazzi emigrati al Nord negli anni 50 e 60, per mostrare fisicamente un meridione diverso, non rassegnato né disperato.

“Intervenendo al Teatro comunale, volli ricordare subito da dove venivo, dov’ero nato. I boia chi molla avevano terrorizzato la città, nei giorni precedenti: la calata degli unni. Bisognava dare un segnale forte, dire ai reggini che avevano di fronte i loro fratelli, che non erano soli”. Bonaventura Alfano, un compagno che ora non c’è più, partito da Melfi per Torino a metà del decennio 60, in quegli anni uno dei protagonisti delle lotte alla Fiat, ritornava spesso su quelle giornate. “Non furono rose e fiori: Reggio era una Vandea, ce ne rendemmo subito conto. Ma non eravamo lì per rispondere alle provocazioni, eravamo lì per costruire un fronte comune con i lavoratori e i disoccupati del Sud”. Quindi con la voglia di ascoltare, di confrontarsi: “Non siamo venuti per darvi lezioni – spiegò Trentin – ma anche per capire e correggere i nostri errori”.

Intorno alle 11 il corteo è pronto per partire. La notizia delle bombe lungo la ferrovia passa di bocca in bocca, i treni ancora non arrivano ma i lavoratori sono ormai migliaia, bisogna muoversi. Si comincia a discutere, ci sono molti fascisti in giro, pare si siano radunati più avanti, si teme di offrire il destro alle provocazioni.

A rompere gli indugi sono gli operai dell’Omeca, la fabbrica di Reggio, ferita nella notte da una bomba: “Voi ve ne andate, noi restiamo qui. Se non la facciamo oggi, la manifestazione, non la facciamo più”, dicono con veemenza. È una prova di forza, una civile, democratica prova di forza: tornare indietro significherebbe darla vinta a chi continua a rimestare nel torbido. E così, loro in testa, le lettere che compongono la parola Omeca stampate su veri e propri scudi, il corteo comincia ad avanzare. I saluti romani, gli insulti, i cori di scherno sono il minimo: dalle vie laterali piovono pietre. Evitare la rissa non è semplice, ma si va avanti. In prima linea sono gli ex partigiani. Bruno Fernex, segretario Fiom e stretto collaboratore di Trentin, lo ricordano mentre andava verso i fascisti deciso, con coraggio, senza mai perdere il controllo di sé. Mentre si tiene il comizio conclusivo – in piazza Garibaldi, felice coincidenza: “Nord e Sud uniti nella lotta”… – e sul palco si avvicendano il segretario generale della Camera del lavoro di Reggio, Peppe Diano, e poi Luciano Rufino (segretario generale degli edili Uil), Carniti e Rossitto, entrano in stazione i primi treni provenienti dal Nord.

“La questione meridionale era un problema degli operai della Fiat allo stesso modo dei giovani disoccupati di Reggio. Era questo che volevamo dire alla città – ci spiegava Alfano –. In una battaglia che non si esaurì con quella giornata”. Parole non di maniera. L’impegno per Reggio, e per il Sud, proseguì con il Congresso Cgil di Bari, nel ’73, che il Mezzogiorno pose al centro dei suoi lavori, e la vertenza dei grandi gruppi industriali, conclusa nella primavera del ’74 con una serie di accordi che prevedevano investimenti appunto nel meridione.

Quarant’anni dopo, cosa rimane? Nei giorni in cui Reggio Calabria si ritrova con il comune sciolto per mafia – atto dovuto, causa un degrado divenuto insopportabile, fortuna che il governo se ne sia accorto –, meglio evitare interrogativi del genere, obietterà qualcuno. Soprattutto guardando al contesto in cui la manifestazione venne organizzata: la grande avanzata operaia dell’epoca, l’unità del lavoro – ben visibile nelle grandi fabbriche – e lo sviluppo dell’industria – dell’industria classicamente intesa, ferro, acciaio e bulloni – come strumenti di progresso, chiavi di volta del riscatto meridionale. Quarant’anni dopo, per dire un’ovvietà, il paese è un altro. La Fiat, che nessuno mai avrebbe pensato lontana da Torino, era comunque il luogo simbolo dell’unificazione (e dell’unità politico sindacale) dell’intero universo lavorativo. Oggi, sindacato e operai divisi, il suo sguardo è rivolto altrove, e si fa fatica a trattenerla in Italia. Il punto cruciale resta però, nelle mutate forme, ancora e sempre il lavoro. Non sarà più il mito metallurgico a scuotere gli animi ma, come sommessamente ricordava la Cgil a Reggio Calabria, proprio all’indomani della decisione del governo, è innanzitutto dal lavoro che bisogna ripartire. La ricostruzione di un tessuto civile di relazioni, la lotta alla ’ndrangheta, il ripristino della legalità, la selezione di una nuova classe dirigente: tutto questo, nel deserto, difficile possa trovare alimento.