Assistiamo oramai da settimane all’avanzare di un nemico invisibile e temuto, il Covid-19. Agli studi della comunità scientifica internazionale, all’incessante lavoro dei professionisti della sanità fa eco uno spazio pubblico di discussione che ha come oggetto la ridefinizione dei confini epidemiologici, i dati del contagio e i rimedi al coronavirus. A circolare in questa landa infinita sono informazioni che hanno come unico e imprescindibile fondamento i boatos e le sue generalizzazioni. I boatos sono voci che corrono di bocca in bocca e vivono di vita propria. Narrazioni sensazionaliste costruite ad hoc in note vocali, che scatenano un’incontrollabile e massiva isteria. Questo moltiplicarsi di linguaggi disarticolati porta l’individuo a introiettare in maniera irriflessa ansie e psicosi, oltre a orientarne emotivamente il suo comportamento. E produce un’aggressività ritualizzata nei confronti del contagiato, colui che è da escludere dalle dinamiche relazionali di comunità, da condannare pubblicamente in nome dell’autoconservazione di quella parte di popolazione ancora immune al virus. 

Apprendiamo così che – oltre a essere sofisticato geneticamente – il Covid-19 è socialmente contro-intuitivo. In quest’ultimo senso, lo vediamo accelerare i processi di reciprocità virtuale per fronteggiare le cogenti esperienze di isolamento fiduciario o obbligatorio. Ciononostante, il virus alimenta la de-socializzazione attraverso delle faglie, dai boatos generate, per emarginare dalle reti sociali le soggettività intolleranti a questi multipli cortocircuiti informativi o, ancor peggio, tutti coloro che sono stati in questi network proscritti, qualificando logiche di coazione all’atomizzazione da cui paradossalmente dovrebbe preservare. 

Concettualmente, lo strumento elettronico è l’unico che può nell’attuale esistenza reclusa in  “zone protette”, consentire ampie forme di inclusione e permettere di comunicare in sicurezza, in uno scenario verosimilmente catastrofico o quantomeno difficile da normalizzare hic et ora. È tuttavia nella prassi quotidiana che si riproduce lo scarto. Difatti, l’idealtipica realtà che ci viene proposta dalla messaggistica verbale di whatsapp ha una duplice esplicitazione: da un lato ci sono i “buoni” vittime di contagio, dall’altro i “cattivi” untori. Il paradigma, come vediamo, rimane sempre e comunque quello massmediatico più ottuso. 

Da questa contrapposizione ha origine la differenziazione delle persone in due cerchie sociali, la cui risorsa che discrimina l’ingresso in una cerchia piuttosto che in un’altra è la positività al tampone, con la conseguente e spregevole mappatura territoriale volta a segnalare la presenza di portatori del virus senza rinunciare al corredo di stigmatizzazioni. Un ossequio al controllo sociale della comunità e alla sua proiezione totalizzante non poi così lontana. 

Nei boatos lo scopo (informare) è razionale, ma la disinformazione che circola in ogni dove si può confutare solo con altri strumenti pregiudiziali. La disintermediazione della comunicazione tipica della modernità favorisce meccanicamente questi circuiti violenti. Regolarità che si rigenerano ad infinitum sino a quando non si abbandona a fatica una chat, la cui partecipazione non è quasi mai dovuta a una scelta personale o a un soggettivo posizionamento in una precipua dimensione di campo. Per di più, in queste sfere comunicative ci si riconosce sul piano dei sentimenti primitivi che sono antecedenti al giudizio. Il pensiero che ha bisogno di elaborazione è escluso dalla frenetica condivisione di notizie. Questo legittima congetture e tesi apocalittiche che l’informazione ragionata fatica a contenere per sua stessa natura. Perché ha tempi differenti determinati dalla selezione, verifica e/o smentita dei dati e dal darne conto attraverso un complesso sistema di comprovata realtà. Il solo modo in questa data contingenza per rimettere ordine nella società, garantire forme di coesione, è silenziare l’intolleranza e i gruppi social schiamazzanti. 

Luca Benvenga, sociologo, Università del Salento