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È passato più di un anno da quella notte maledetta, una delle tante che in questi anni di migrazioni disperate hanno avuto per teatro il Canale di Sicilia. Tra il 18 e il 19 aprile del 2015, un barcone con su stipati circa 900 migranti, tra donne, uomini e bambini, affonda nella striscia di mare che separa il nostro Paese dal continente africano. Per loro nessuna possibilità di salvarsi.
Dopo un anno e due mesi, alla fine dello scorso mese di giugno, la nave “Ievoli Ivory” approda nel porto di Augusta, Siracusa. Al suo seguito è agganciato il relitto di quella carretta del mare. Rivede la luce dopo essere rimasta inabissata a 370 metri di profondità, nel buio pesto del fondo del Mar Mediterraneo. Sono ancora tutti lì, al suo interno, i migranti, di diverse nazionalità e provenienze, che avevano intrapreso il proprio “viaggio della speranza” verso l'Italia.
L'impegno assunto dal premier Renzi, ovvero “recuperare i corpi di tutti i migranti che hanno perso la vita durante il naufragio per dare loro una degna sepoltura, anche se si devono spendere soldi”, è stato così rispettato. Con un finanziamento della Presidenza del consiglio di circa 9,5 milioni di euro e una pianificazione strategica fin nei minimi dettagli, è stata avviata l’Operazione Augusta 2016, di recupero del relitto e di identificazione delle salme.
Un’operazione, terminata qualche giorno fa, portata avanti con impegno, passione e coinvolgimento emotivo da circa 400 vigili del fuoco, che – in turni di 24 ore – si sono alternati, insieme alla Marina militare, nel recupero dei corpi: “Ora possiamo finalmente ridare un’identità a tante persone e, soprattutto, possiamo aiutare a scrivere la storia della più grande tragedia dei migranti del mare, come fu a suo tempo definita”. Così inizia il suo racconto José Sudano, tra i protagonisti di quel difficile intervento nella doppia veste di vigile del fuoco che ha partecipato al recupero del relitto e di coordinatore della Fp Cgil per il comparto della regione Sicilia, che ha contribuito alla pianificazione delle operazioni.
“Quando siamo entrati la prima volta nei locali della stiva, della sala macchine e negli altri ambienti utilizzati per ricoverare quella povera gente, lo scenario era indescrivibile. C’erano corpi ovunque”, continua José con la voce che ancora trema quando dà corpo alle sensazioni provate quel giorno. “Molti – riprende il suo racconto – lo hanno definito uno scenario raccapricciante, una barca degli orrori, ma io non ci ho visto nulla di raccapricciante. Ci ho visto solo tanta disperazione. Se ne sentiva l’odore acre in ogni angolo. Sono rimasto letteralmente contaminato da quell’odore e da quelle sensazioni, che ho portato con me e che mi trascino dietro ancora adesso, anche se sono già passati quattro giorni”.
José si perde un attimo, torna con la mente a quei momenti, che si sommano alle esperienze passate. Poi riprende: “Come vigile del fuoco dovrei essere, in un certo senso, abituato ad affrontare certe situazioni, ma quel che ho provato alla vista di tanta tragedia non mi abbandona. Così come non dimentico mai la paura, che serve a far aumentare l’attenzione mentre si affronta un’operazione, ma che non si trasforma mai in panico o nella perdita del controllo rispetto a quello che dobbiamo fare”.
La sfida è arginare la dimensione emotiva con quella più propriamente professionale: “L'intervento, comunque, deve sempre mantenere una dimensione di altissima professionalità, perché si sta attivando un processo di identificazione e noi dobbiamo sempre mantenere alto l'obiettivo da raggiungere: il recupero delle salme. Ma, allo stesso tempo, è impossibile prescindere da un senso di profonda umanità. Davanti ai nostri occhi giacevano senza vita migliaia di persone avventuratesi in un viaggio incredibile, dopo aver lasciato la propria casa, le proprie radici, tutto il loro passato”.
Dalla voce spezzata di José non è difficile intuire quanto sia stato alto il carico emotivo di questa operazione. Come coordinatore della Fp vigili del fuoco siciliana, ha lavorato molto e ha negoziato ogni minimo aspetto dell’iniziativa di recupero, affinché al personale impegnato nell’Operazione Augusta 2016 fosse garantita, oltre alla sicurezza fisica e tecnica, anche e soprattutto un costante supporto psicologico, prima, durante e dopo l’intervento, da parte di altri vigili del fuoco specializzati proprio in questo specifico ambito: “Si chiama supporto dei pari”, puntualizza José.
“È stata un’esperienza unica, che non dimenticherò mai più – prosegue –. Me la porterò dentro e rimarrà impressa nella mia memoria, nel profondo. Vedere tutti quei bambini, tutte quelle donne con ancora il fazzoletto in testa. Tutti quegli uomini stipati nella sala macchine. Una barca di 22 metri con 900 persone a bordo. Hai idea di cosa significhi? Hai idea di come si siano potuti sentire quando hanno capito che stavano affondando? Una situazione del genere tira fuori veramente quell’istinto di sopravvivenza che noi, nella nostra comoda quotidianità, non sappiamo neanche più cosa sia. Si sono ritrovati letteralmente come dei topi in gabbia”.
È certo. José non dimenticherà più quello che ha visto in quel relitto. “Tutti – conclude – una volta nella vita dovrebbero dare anche solo un’occhiatina, non a quello che facciamo noi vigili del fuoco, ma a quello che succede a queste persone”. Un sospiro si intromette tra i tanti pensieri e le tante sensazioni che vorrebbe comunicare. “Il mondo sarebbe diverso, molto diverso. Ognuno di noi ha un cuore che batte, e loro sono persone come me e te. Hanno solo avuto la sfortuna di nascere in un posto da cui sono stati costretti a fuggire”.
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