Con il via libera definitivo del Senato, dove il governo ha incassato la fiducia con 155 sì e 92 no, diventa legge la riforma delle banche popolari, che impone agli istituti che superano la soglia degli 8 miliardi di attivi di diventare società per azioni.

A chi giova la trasformazione in Spa delle banche popolari? Se lo chiedono in molti, tra gli osservatori più autorevoli e accreditati in campo finanziario, all'indomani dell'approvazione del progetto di riforma. Rivolgiamo la stessa domanda a Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata. “La risposta più immediata che mi viene in mente – osserva Becchetti, che è anche portavoce della campagna 005 per la riforma della finanza – è: non certo a chi ha a cuore valori come democrazia, partecipazione e condivisione nelle scelte strategiche”.

Rassegna Una riforma che nasce dunque con intenti tutt’altro che virtuosi…

Becchetti Diciamo esattamente come stanno le cose. La riforma delle popolari interviene in modo brutale su uno dei punti più delicati del rapporto tra economia e democrazia. Si sta di fatto decidendo se, in linea di principio e nei fatti, qualcuno con molti soldi, guadagnati non sappiamo come, può comprare sempre e comunque un intermediario finanziario, nato magari con intenti mutualistici, solidali, cooperativi, di servizio alle imprese del territorio, e trasformarlo in quello che vuole. Tutto questo in netto contrasto con il diritto di una comunità di darsi delle organizzazioni che competano sul mercato con altri tipi di banche, lasciando alle dinamiche di mercato, e non certo a un decreto, decidere chi prevarrà.

Rassegna Il rischio più avvertito è quello di un’eccessiva semplificazione. Lei invece è da sempre sostenitore della “diversità della specie” del nostro sistema finanziario. Può delinearne nel merito i contenuti?

Becchetti È noto che il nostro tesoro finanziario è la biodiversità, che si alimenta di un fitto tessuto di fondazioni, banche cooperative, popolari e banche Spa, ognuna delle quali con una specifica vocazione e un vantaggio comparato nel servire meglio una parte del mondo produttivo, fatto di medie e piccole imprese e artigianato. Un ricco patrimonio di realtà, le banche a voto capitario, significativamente più dedite al credito rispetto al trading sui derivati, con gli utili meno volatili, meno esposte ai rischi di perdita di valore del patrimonio allo scoppio di eventuali bolle speculative. L’approccio del governo è invece quello di muovere verso un modello dove la diversità viene sostituita dalla presenza di pochi grandissimi attori, più propensi a indirizzare il risparmio dei nostri territori verso la finanza piuttosto che il credito.

Rassegna Professore, c’è chi – tra i detrattori del decreto governativo – definisce la riforma delle popolari anticostituzionale. Qual è al riguardo il suo punto di vista?

Becchetti Sono d’accordo con chi muove al decreto questa critica. L’articolo 45 della Costituzione sostiene a chiare lettere che la Repubblica italiana riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità senza fini di speculazione privata e ne favorisce l’incremento. Ora, non c’è bisogno di sottolineare più di tanto quanto, su questo specifico versante, la riforma sia contraria ai principi sanciti dall’articolo in questione della nostra Carta fondamentale.

Rassegna Quali sono i suoi suggerimenti per una riforma delle popolari?

Becchetti Partiamo da un presupposto: nessun governo deve obbligare un’organizzazione produttiva a cambiare natura se non esistono problemi specifici per il bene comune. Per intenderci: che senso ha costringere Ubi banca, che ha fatto meglio di Unicredit negli stress-test, a diventare una banca Spa? Questo non significa che non si debba porre il tema di un intervento nel settore. Per quanto mi riguarda, ritengo importante spingere per un’autoriforma che rinforzi la capitalizzazione delle Banche di credito cooperativo attraverso un sistema di garanzie e fondi di garanzia di rete con adesione obbligatoria alle organizzazioni di categoria, più o meno sulla falsariga di quanto già oggi esiste in Germania e in Austria. Non solo. Sarebbe anche importante lavorare sui punti deboli del ricambio delle classi dirigenti e del rischio di condizionamento da parte della classe politica locale, oltre che porre obblighi di diversificazione settoriale dei crediti, con quote massime sugli impieghi, per evitare l’eccesso di prestiti in settori come quello immobiliare.