“Facoltà dell’uomo di agire e pensare in piena autonomia”. Il libro con tutte le parole del mondo è ora finalmente aperto. Il pane amaro dei braccianti, nella Puglia arsa del primo 900, comincia che si è ancora bambini. Lui, il padre perduto mentre cercava di salvare le bestie del barone in una notte di tempesta, a solo otto anni ha dovuto lasciare la scuola per la terra. Quel libro lo ha comprato, sulla strada di casa, per due lire e un paio di scarpe: le sue. Chino sulle pagine con l’amico Ambrogio, Peppino incontra la parola “libertà”. La fiction di Alberto Negrin dedicata a Giuseppe Di Vittorio (in onda su Raiuno domenica 15 e lunedì 16 marzo) non poteva avere titolo più appropriato: Pane e libertà; ovvero le due questioni intorno a cui ruota tutta la vita del capo della Cgil nel dopoguerra. E che fanno del sindacalista pugliese, in un secolo in cui la separazione tra i due temi ha tragicamente segnato la storia del movimento operaio, un politico capace di vedere oltre il proprio tempo. Era un uomo assai amato Di Vittorio: “Lo volevano bene pure le pietre”, per dirla con l’espressione ormai famosa di un bracciante che l’aveva conosciuto, Pasquale Degregorio, raccolta nel nel libro di Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero dedicato ai lavoratori del Tavoliere (La memoria che resta, Lecce, Aramirè, 2004).


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La sua calda umanità era ammirata anche dagli avversari. Con gli anni – ne parlavamo su Rassegna nell’ottobre 2006, presentando l’intervento che Bruno Trentin non aveva potuto leggere al convegno Cgil sui “fatti” d’Ungheria –, con gli anni, dicevamo, questo suo tratto aveva finito però per rinchiuderlo nell’icona abusata del tribuno del popolo. Rimuovendo in tal modo la portata del contributo fornito al movimento operaio e alla sinistra italiana. Era la tesi appunto di Trentin: l’inaccettabilità “delle vulgate” che confinano Di Vittorio “nella cerchia dei capipopolo e dei tribuni dall’oratoria trascinante (…) ignorando la sua statura, politica e culturale, di grande riformatore, affermatasi quando il Pci era ancora assai lontano dal percepire l’esperienza catastrofica del socialismo reale”.

Un grande riformatore, dunque, e insieme un uomo complesso: “È un bracciante pugliese analfabeta – ricordava sull’Unità (luglio 2004) Adriano Guerra, autore proprio con Trentin del libro Ediesse dedicato al ’56 e all’Ungheria (Di Vittorio e l’ombra di Stalin) – ma è anche, a Parigi nel 1937, direttore di un giornale, La Voce degli italiani, da lui trasformato in un foglio (...) innovativo nei contenuti e nell’impaginazione. È certamente un anarchico intransigente ma è anche uomo del gradualismo e delle riforme (…) uno stalinista ed un esponente del comunismo democratico”; e molte altre cose si potrebbero aggiungere in un percorso che non è mai stato unilineare – sempre con Guerra: non un cammino “dalle ‘malattie infantili’ alla maturità” – ma pieno di contraddizioni e cambiamenti improvvisi. Una vita, osservava a questo riguardo Vittorio Foa, vissuta all’insegna “della coabitazione di due fedeltà, quella alla classe e quella al partito della classe”, e segnata da un motivo ricorrente: “Di Vittorio, come vecchio sindacalista rivoluzionario, aveva tenuto fede alla sua convinzione che dai lavoratori e non dalle organizzazioni nasce la legittimità dell’azione sociale”. Così che, quando “il partito interferiva con gli interessi di classe e con gli ideali della classe” la contraddizione diventava inevitabile.

Dentro questa contraddizione, il pane e la libertà, appunto, l’impegno per il riscatto materiale e civile dei lavoratori sono intimamente legati a segnare una coerenza di fondo. In una vicenda che lo vede diventare presto protagonista delle lotte sociali – il “sindacalista della motocicletta rossa”, il mezzo regalatogli dai compagni perché possa spostarsi da Cerignola a Minervino ai paesi della costa senza difficoltà, lo vediamo nel film – e che lo consegnerà, nell’immaginario dei braccianti pugliesi prima, dei lavoratori di tutt’Italia poi, al mito antico dell’eroe. “Di Vittorio a quell’epoca e adesso per noi è veramente un dio – cantilena Carmine Giordano in un’altra delle testimonianze raccolte da Rinaldi e Sobrero – perché l’abbiamo visto che era un uomo che camminava per la terra e non c’è altro dio che possiamo tener presente noi”.

Il faccia a faccia con gli agrari e i fascisti, la lotta aperta e coraggiosa contro l’avversario e il nemico, ma anche i dubbi sulla teoria funesta del socialfascismo (1929), il no al patto Molotov-Von Ribbentrop (1939) e quello sull’Ungheria (1956) – di fronte un Togliatti sempre cinico e realista (forse fin troppo cinico e realista) –, i quadri in cui tutto questo nel film viene rappresentato, è appunto il mito dell’eroe che mettono in scena: un canone di narrazione che aderisce in pieno ai sentimenti di un popolo. Basta vedere la foto dell’ultimo comizio a Cerignola, del resto (lui quasi ad abbracciare la sua gente), per ricavarne una testimonianza dal vero. Indugiare sul mito, tuttavia, sarebbe ancora una volta fare torto alla verità dell’uomo Di Vittorio. Oltre l’agone eroico, il sindacalista pugliese è il cafone che osa indossare il copricapo dei signori. Gesto di sfida pure questo eroico, certo: Davide contro Golia. Per le vie di Cerignola, il cappello in testa, Carolina Morra, la sua donna, a riderne innamorata, mentre prete e padroni – sembra l’Italia di oggi – son lì scandalizzati a chiedersi dove-mai-si arriverà. Tutto giusto. Ma la sfida di Di Vittorio è anche quella del cafone che, messo il cappello dei signori, insegna ai braccianti a non toglierselo, il cappello – la coppola –, quando un signore incontrano per strada. Neanche quando il signore che incrociano è il loro signore: il loro eroe. Ed è questa, alla fin fine, la lezione che il film di Negrin ci restituisce.

(Pane e libertà. La vita di Giuseppe Di Vittorio, Regia: Alberto Negrin. Con: Pierfrancesco Favino, Raffaella Rea, Giuseppe Zeno, Federica De Cola, Massimo Wertmuller, Francesco Salvi, Antonio Della Mura – Di Vittorio bambino – Palomar, 2008)