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“Dottoressa, perché non la assumono?”. Gli ispettori dell’Agenzia delle entrate raggiungono il secondo piano dell’ospedale Binaghi, a Cagliari, per verificare una strana partita Iva che fattura una volta al mese, non ha dipendenti, né strumenti di lavoro o uffici intestati, e che negli ultimi anni è stata aperta e chiusa già quattro volte. L’anomalia rilevata dal fisco si chiama Valentina Loi, biologa di 49 anni, da vent’anni precaria al laboratorio di immunogenetica e immunologia dei trapianti. Stesso lavoro, stesso ospedale, un numero svariato di Co.co.co alternati a contratti di libera professione alle spalle e tanta, tantissima passione per il suo mestiere. Delicato e decisamente importante, perché è lei a valutare – insieme alle colleghe Maria Serra e Roberta Maddi, precarie anche loro – la compatibilità degli organi da trapiantare, l’analisi del dna di chi dona o di chi ha bisogno di midollo osseo in tutta la Sardegna, e altre attività connesse che hanno a che vedere con la vita e la morte delle persone.
“Non si preoccupi dottoressa, lei è in regola”. Gli ispettori verbalizzano, in poche parole, una condizione esistenziale: “Costretta in base alla scelta del datore di lavoro”. Ma non è il solito imprenditore privato che cerca di risparmiare sui costi. Questa volta è un ospedale pubblico, un servizio indispensabile finanziato con fondi regionali e gestito così. Nei turni, oltre al personale assunto stabilmente, ci sono Valentina, Maria e Roberta, ma i loro nomi non compaiono, la reperibilità è garantita però non risulta e non è pagata. Nei periodi di maternità il rapporto di lavoro è stato semplicemente sospeso, per ripartire dopo mesi come se nel mezzo non fossero stati calpestati anni di battaglie per i diritti, per la civiltà.
Il futuro oggi è in mano all’Ats, l’Azienda regionale per la tutela della salute, che deve decidere se anche in Sardegna – come hanno fatto già in altre aziende sanitarie d’Italia – si possa fare il concorso per stabilizzare le biologhe inquadrandole nel profilo di collaboratore tecnico professionale, che poi significa tecnici laureati e non specializzati. La Fp Cgil di Cagliari ha avviato, insieme alla struttura regionale, una vertenza che va avanti da mesi ma resta per ora impigliata nella rigidità delle norme o, meglio, della loro interpretazione. A nulla sono valsi gli incontri con l’assessorato alla Sanità e l’Ats, che sino ad ora si sono rifiutati di perseguire le strade intraprese da altri e, solo poche settimane fa, si sono impegnati a chiedere un parere specifico al ministero della Salute.
Per capire come sia trascorso tutto questo tempo però, occorre fare un passo indietro: la ragione formale che ha inchiodato alla precarietà le tre lavoratrici è che per essere assunte era indispensabile il titolo di specializzazione – un ulteriore periodo formativo di cinque anni – e un inquadramento come dirigenti. Insomma, per lavorare da precarie il titolo non è mai servito, per essere assunte sì. Una incongruenza superata con spirito pratico dalle aziende sanitarie liguri e lombarde, e perfino chiarito dal ministero della Salute, che le ha legittimate a utilizzare un profilo flessibile, non da dirigenti, individuato dal contratto collettivo: quello di collaboratore tecnico professionale, utile a far fronte alle esigenze nei settori tecnici, dove operano, appunto le tre biologhe sarde.
Alla Assl di Cagliari invece, sembra che vigano altre regole. A nulla sono valse le richieste avanzate dal dirigente responsabile del Laboratorio dove lavorano Valentina, Maria e Roberta, che ha sollecitato per anni l’inserimento nell’organico stabile di tre collaboratori tecnici professionali. Nessuno ha mai risposto. Nel frattempo, le attività legate al trapianto di organi e cellule staminali sono garantite 24 ore su 24 da biologhe precarie con partita Iva. Il fisco ha registrato l’anomalia, davvero il sistema sanitario pubblico non riesce a sanarla?