Giovani, nella stragrande maggioranza precari e con redditi che rasentano la povertà. Molti di loro hanno rinunciato addirittura a curarsi, perché la sanità è divenuta inaccessibile per via dei costi sempre più alti. Sono i millennials, ragazzi – 11 milioni in Italia, 2,3 miliardi nel mondo – nati tra gli anni ottanta e il 2000, altamente istruiti, tecnologicamente evoluti, informati, esigenti, versatili. Almeno è questa la fotografia che ne fa l’ultimo Rapporto Censis (il cinquantesimo della serie), presentato nei giorni scorsi a Roma.

Una generazione profondamente diversa da quella che l’ha preceduta, che ha vissuto sulla propria pelle la fine dell’illusione della crescita e del benessere. Sono molti i tratti che la rendono, a detta di sociologi ed economisti, così importante e particolare: sensibilità per i temi dell’ambiente, spiccata attitudine a viaggiare, forte familiarità con le nuove tecnologie, in particolare Internet, diffidenza verso politica e ideologie, a cui spesso preferisce azioni concrete e mirate.

Ma è una generazione che deve anche fare i conti con un’etichetta scomoda, che la vorrebbe pigra, superficiale, narcisista ed egoista. “I millennials sono la generazione delle tre C: connected, connessi in Rete e con tutto il mondo, confident, nel senso che hanno grande fiducia in se stessi, vogliono emergere e avere visibilità, e open to change, aperti al cambiamento – spiega Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e coordinatore dell’Osservatorio permanente sui giovani dell’Istituto Toniolo –. Non solo perché mediamente sono ragazzi curiosi e flessibili, ma anche perché provano strade diverse e trovano soluzioni sorprendenti a un problema”.

Lo dimostra il numero di start up innovative create dai giovanissimi: più di 5 mila, stando al Registro delle imprese. Una forte spinta all’innovazione, dettata pure dall’esigenza (in taluni casi, dalla necessità) di puntare, oltre che all’affermazione personale, alla condivisione. I millennials sono, non a caso, la generazione della sharing economy. “Le nostre indagini mostrano che, pur avendo una forte autostima e determinazione nei confronti della realizzazione individuale, questi ragazzi fanno della condivisione uno dei valori principali in cui credono”, sottolinea Rosina.

Per loro, prosegue lo studioso, “è naturale mettere in comune pensieri, progetti, passioni, ma anche utilizzare gli spazi coworking, o le formule di sharing economy studiate per viaggiare a costi contenuti. Perché i millennials sono anche dei viaggiatori nati. Per un trentenne i confini geografici non esistono più: contano le Reti, cioè le comunità con cui, anche a migliaia di chilometri di distanza, condividere esperienze”.

Anche per questo, complice la difficoltà a trovare un lavoro nel nostro Paese, sono maggiormente predisposti, rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, all’idea di studiare o lavorare all’estero. Perché il vero problema, soprattutto in Italia, è il lavoro. Gli ultimi dati Istat fotografano una situazione drammatica: dal 2008 a oggi nella fascia d’età 15-34 sono due milioni gli occupati in meno, a fronte di un calo demografico di un milione e 300 mila. Numeri impressionanti, che si aggravano nella fascia d’età più giovane, tra 15 e 24 anni, sempre più distante dal mondo del lavoro e con maggior difficoltà ad attivarsi.

È proprio in questa fascia che si trovano anche i Neet, giovani che non lavorano e non studiano, chiusi in un limbo da cui è difficile uscire. I millennials sono anche questo, la generazione più altamente formata della storia, ma che fatica, stenta ad affermarsi.

“I millennials italiani possono vantare un livello di istruzione più alto delle generazioni precedenti, affiancato a un alto profilo professionale in praticamente tutti i campi – afferma deciso Andrea Brunetti, responsabile nazionale Cgil per le politiche giovanili –. È il sistema produttivo italiano a non aver saputo cogliere l’occasione, non riuscendo di fatto ad assorbire questo tipo di lavoratori”.

A ben vedere, si tratta di un vero e proprio paradosso, perché formiamo giovani preparatissimi che poi o vanno a mettere in pratica quanto appreso altrove, oppure restano sospesi in percorsi precari, con il rischio di disperdere nel tempo le competenze acquisite. “Abbiamo il numero più esiguo di impiegati laureati nel settore dell’Information communication technology – continua Brunetti – e, in generale, il mercato del lavoro è sempre più al ribasso, con conseguente riduzione del reddito. Il tutto aggravato dall’introduzione della flessibilità senza sicurezza, cioè senza un welfare adeguato”.

Da quando si è venuta a creare questa situazione di precarietà, sono stati numerosi gli interventi messi in atto dai vari governi e finalizzati (almeno sulla carta) a fare uscire i millennials dal pantano. Prima con la riforma Fornero, poi con il Jobs Act e Garanzia Giovani, iniziative che avrebbero dovuto dare risultati tangibili nel medio e lungo termine, ma che in realtà sono molto discussi. Da una parte, ci sono le statistiche, che soltanto negli ultimi mesi mostrano un lieve aumento dei giovani occupati e una tendenziale riduzione degli inattivi e dei Neet. Ma da un’altra parte le perplessità non mancano. “I dati di dicembre 2015 sull’aumento dei tempi indeterminati e quelli degli ultimi due trimestri che indicano un aumento degli occupati sono falsati, rischiando di trasformarsi in bolle pronte a esplodere – osserva ancora Brunetti –. Con il Jobs Act non c’è stata la sbandierata riduzione dei contratti; ciò che ha inciso maggiormente è la drammatica estensione dei voucher, che insieme a stage e tirocini contribuiscono ad aumentare le statistiche degli occupati, ma non certo a creare reddito stabile o percorsi chiari per entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro”.

Anche la riduzione dei Neet appare come una bolla di sapone, visto che per risultare attivi basta iscriversi a Garanzia Giovani e segnarsi all’ufficio dell’impiego; certo un passo in più, ma che rischia di creare sfiducia ulteriore tra le nuove generazioni. “Si attivano, si iscrivono, senza magari arrivare a niente – aggiunge il sindacalista della Cgil –. Ma moltissimi, comunque, continuano a restare, tra reti formali e informali, start up, coworking e FabLab, che però ancora non riescono a rimpiazzare i posti di lavoro perduti. Deve essere il sistema produttivo ad assorbire e veicolare certe tendenze, creando industrie a partire dai piccoli laboratori”.

I millennials sono anche la generazione più distante dalla politica. E anche dal sindacato: tra gli occupati, solo il 20% è iscritto e ancora meno sono quelli che partecipano. Perché il sindacato è sentito distante, ma soprattutto perché lo si incrocia solo quando si ha in mano un contratto a tempo indeterminato; tutti quelli che, pur lavorando, sono assunti con altre forme contrattuali difficilmente hanno l’occasione di incontrarlo. Sì, perché i millennials sono senza dubbio una generazione con meno tutele e diritti rispetto alle precedenti e con un reddito destinato a ridursi.

“Il calo di partecipazione e rappresentanza è serio, anche se i giovani iscritti sono più di quelli che si è soliti immaginare – rassicura Brunetti –. Ma questa è un’ottima occasione per il sindacato di rinnovarsi e arricchirsi, coinvolgendo gli esponenti di questa nuova generazione: lo scambio di idee e valori deve essere reciproco. È un tema che già stiamo affrontando, ma dobbiamo agire con più radicalità e partecipazione; abbiamo la necessità di introdurre nuovi processi di rappresentanza, per rispondere alla frammentazione del lavoro con una contrattazione che sia davvero inclusiva, nei settori così come nei territori. Resta poi da aumentare e affinare l’uso delle nuove tecnologie e delle reti social, strumenti ormai indispensabili e particolarmente cari proprio ai millennials. C’è insomma molto da lavorare, ma il movimento sindacale ha tutte le risorse e le energie per rispondere alle sfide che abbiamo davanti”.