La vicenda Marlane tornerà in tribunale. Le parti civili si preparano a dare nuovamente battaglia in aula, dopo il ricorso dei pm della Procura di Paola (Cosenza) alla Procura d’appello di Catanzaro contro la sentenza di primo grado che, pochi giorni prima del Natale dello scorso anno, ha assolto il gruppo Marzotto dalle accuse di omicidio colposo plurimo, disastro ambientale e violazioni in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro. Parte civile sarà anche la Cgil, per “la ricerca di verità e giustizia” su quanto accaduto negli anni di attività dell’ex stabilimento tessile calabrese.

Più di 100 operai si sarebbero ammalati di patologie riconducibili alle lavorazioni della fabbrica di tessuti, chiusa definitivamente nel 2004, e pesanti sospetti d’inquinamento del terreno adiacente a causa dello smaltimento illegale degli scarti del processo industriale sono caduti sulla proprietà. “Andremo fino in fondo: fino alla Cassazione, se necessario”, assicura Angelo Sposato, segretario generale della Cgil Pollino-Sibaritide-Tirreno, attiva nel territorio in cui si trova il sito dismesso, un’area di circa 40 mila metri quadri a ridosso della costa tirrenica, tra Praia a Mare e Tortora Marina, località balneari molto vicine al confine con la Basilicata. “Una volta terminati i vari incontri a carattere legale – spiega il segretario – abbiamo intenzione di organizzare una serie di iniziative pubbliche di sensibilizzazione sui temi della salute e della salvaguardia ambientale”.

Iniziative che rappresentano una parte importante dell’azione portata avanti dalla Cgil e dalle associazioni ambientaliste, già parti civili nel processo di primo grado, che – iniziato, dopo ripetuti rinvii, il 2 aprile del 2012 – si è concluso il 19 dicembre 2014 con l’assoluzione con formula piena degli imputati. I giudici avevano ritenuto gli elementi presentati in aula non sufficienti a supportare la tesi accusatoria. Non sarebbero state provate, secondo i magistrati, né un’incidenza del tasso di mortalità per patologie neoplastiche superiore rispetto al resto della Calabria, né la presenza nell’ambiente circostante di sostanze cancerogene a un livello tale da essere collegato all’insorgenza di malattie tumorali.

La procura di Paola ha impugnato la sentenza di primo grado, ritenendo che non sia stato dato il giusto peso alle testimonianze rese in aula da ex operai e da familiari dei lavoratori morti, come pure alle relazioni dei consulenti tecnici, che avevano rilevato un nesso di causalità tra le sindromi tumorali e le condizioni di lavoro nella fabbrica, oltre a evidenziare la presenza di sostanze inquinanti nel terreno circostante. Ora si svolgerà la partita di ritorno, ma i giocatori non saranno proprio gli stessi. Cambia, anche se leggermente, il banco degli imputati. Nel primo processo erano in tutto 13, ognuno dei quali aveva ricoperto incarichi a vario titolo all’interno del gruppo tessile di Valdagno, a cominciare – per citare i più noti – da Pietro Marzotto, presidente fino al 1998, e da Silvano Storer, ex amministratore delegato, oltre all’attuale presidente del cda Antonio Favrin, agli ex sindaci di Valdagno, Lorenzo Bosetti, e di Praia a Mare, Carlo Lomonaco (il primo quale ex vicepresidente vicario del gruppo e il secondo come ex responsabile di reparto).

Oggi sono 11: uno è deceduto e per un altro, Ivo Comegna, era stata la stessa accusa a chiedere l’assoluzione. Cambierà soprattutto la composizione delle parti civili, che in questo secondo processo non vedrà più i familiari di chi alla Marlane ha lavorato e, stando alle accuse, per la Marlane si è ammalato e nella maggior parte dei casi è morto. I parenti degli operai deceduti, nel novembre del 2013 hanno accettato la proposta di transazione avanzata dall’azienda. Si è parlato di 30 mila euro, al lordo delle spese legali, offerte in cambio del ritiro dall’azione legale contro Marzotto. È lo stesso gruppo vicentino a riassumere la questione nel suo report annuale 2014, spiegando che nel marzo 2011 è stato notificato alla società il decreto di citazione del responsabile civile, vale a dire del soggetto tenuto a risarcire i danni e le spese derivanti da un processo penale, “ancorché non autore del reato”. “Nel novembre 2013 – si legge nel report –, previe intese con Eni Spa (co-obbligato in quanto precedente proprietario), sono state definite in via transattiva tutte le pretese patrimoniali delle persone fisiche costituite nel processo penale e di quelle che avevano agito in sede civile”.

Eni era co-obbligata al pagamento delle somme in quanto proprietaria dello stabilimento (e della capogruppo Lanerossi) fino al luglio del 1987, anno della cessione per 168 miliardi di lire alla famiglia Marzotto, che nel 1996 firmò con i sindacati un accordo per la riorganizzazione e la ristrutturazione della vecchia fabbrica (era nata nel 1954 come Lanificio di Maratea, fondata dall’industriale piemontese Stefano Rivetti). Meno di 10 anni dopo lo stabilimento calabrese era già un ricordo: cigs e mobilità per oltre 300 dipendenti e pezzi importanti della fabbrica spostati negli impianti dell’Est Europa. “La Marzotto ha preso due volte da questa terra – commenta Sposato –, prima con un investimento ad alto rischio morale, quando ha fatto credere a un sogno di sviluppo, puntando sul bisogno delle persone e sulla loro fame di lavoro, e dopo, proponendo quelle transazioni che su quello stesso bisogno hanno fatto leva”. Il sindacato, tiene a precisare il segretario della Cgil Pollino-Sibaritide-Tirreno, non può che rispettare la scelta dei familiari, ma vuole lo stesso andare avanti nella sua battaglia. “Abbiamo il dovere di farlo. Lo dobbiamo ai lavoratori morti e lo dobbiamo alla nostra terra. In alcuni casi, un grande sindacato come la Cgil deve avere il coraggio di fare scelte e portare avanti azioni in nome di quei soggetti che non riescono a far sentire la propria voce. Questo processo per noi rappresenta un atto non solo giudiziario, ma anche necessario a restituire dignità al nostro territorio”.

La pensava allo stesso modo anche il Comune di Praia a Mare, ma poi ha cambiato idea. Costituitosi parte civile al primo processo (con il sindaco uscente Lomonaco tra gli imputati) non si ripresenterà in aula, insieme a Cgil, Comune di Tortora e associazioni ambientaliste, contro l’azienda veneta. A metà settembre scorso l’amministrazione guidata dal sindaco Antonio Praticò ha stretto un’intesa con il gruppo per la cessione di parte dell’area industriale dismessa: poco meno di 5 mila metri quadri di capannoni e oltre 28 mila di terreno in cui ricade anche il depuratore. L’azienda si è impegnata a completare la caratterizzazione ambientale (“ma solo dei terreni oggetto dell’intesa”, puntualizza Sposato). Il Comune in cambio ha rinunciato a qualsiasi azione contro il gruppo Marzotto. “Alla notizia dell’accordo siamo rimati basiti – ammette il segretario della Cgil – e in un incontro pubblico abbiamo chiesto al Comune di rinunciarvi, ma l’amministrazione non ha voluto sentire ragioni”.

L’azienda ha mantenuto la proprietà di gran parte dell’area e la relativa destinazione urbanistica di parte di essa, quindi la possibilità di fare altri investimenti industriali, residenziali o turistici, tenendosi di fatto anche il depuratore. L’impianto ricade nella porzione di terreno oggetto dell’intesa, nella quale tuttavia il Comune s’impegna a consentire alla società vicentina “e ai suoi aventi causa, in perpetuo a titolo gratuito e su semplice richiesta della stessa l’uso del depuratore aziendale oggetto di cessione”. “Siamo contrari a questo accordo – spiega ancora Sposato –, soprattutto perché il diritto alla salute e alla vita non è negoziabile e il Comune aveva il dovere, per le vittime e per i loro familiari, di essere presente fino alla fine al processo, cercando giustizia e verità”. Chi, insomma, pensava che la battaglia legale, iniziata alla fine degli anni novanta con le prime denunce di alcuni operai, potesse contare su un gruppo di sostenitori compatto è rimasto deluso.

Comunque andrà a finire la disputa giudiziaria, resta inoltre l’incognita sul futuro di un’area da più di 10 anni in totale abbandono. “Ne torneremo a discutere al più presto con l’amministrazione comunale – assicura Sposato –, chiedendo un tavolo di confronto per ragionare sulla riqualificazione della ex Marlane”. La Cgil territoriale ha sempre sostenuto che il sito vada bonificato e restituito ai cittadini, con una parte trasformata in una sorta di museo della memoria per non dimenticare un pezzo dell’industria locale, che nel bene e nel male fa parte dell’identità di questo luogo.