Tra le molte innovazioni presenti nella legge di stabilità 2016 vi è anche la possibilità per le aziende di utilizzare una nuova forma di prestazione lavorativa, definita “lavoro agile”, che consiste nello svolgere la propria opera fuori dei locali dell’azienda, sfruttando l’elevato livello di digitalizzazione che caratterizza ormai una grande quota di attività produttive. L’articolato, che prende la forma di decreto collegato alla norma principale (e che per inciso innova anche le tutele previste per il lavoro autonomo, proponendosi di sanare alcune eclatanti ingiustizie previdenziali che colpiscono i professionisti senza albo), deriva in buona parte dalla proposta di legge sullo Smart Work presentato a inizio 2014 dalla deputata Alessia Mosca e altre colleghe. Tale proposta prendeva spunto a sua volta da una ricerca condotta dal Politecnico di Milano, la quale sosteneva come fosse giunto ormai il momento di andare oltre l’idea tradizionale di telelavoro, che veniva percepito come troppo “pesante” per aziende che fanno della flessibilità il loro modo di operare. Allo Smart Work faceva esplicito riferimento anche il testo originale dell’art. 14 della Riforma della Pubblica Amministrazione (Legge 7 agosto 2015, n. 124), che prevedeva il coinvolgimento di almeno il 20% del personale. Nell’iter parlamentare l’articolo ha poi perso il riferimento anglofilo, affermando invece che gli enti avrebbero dovuto utilizzare telelavoro e “nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa” per almeno il 10% del personale nei successivi tre anni.

Insomma, attorno al Telelavoro/Smart Work/Lavoro Agile qualcosa si sta muovendo anche a livello legislativo. E ciò dopo molti anni in cui le parti sociali hanno preferito stipulare accordi nazionali, locali e di impresa, temendo che ogni legge in materia avrebbe irrigidito una forma di lavoro emergente e ancora da sperimentare, lasciando alla sola pubblica amministrazione il compito di regolare il telelavoro per i propri dipendenti in via legislativa.

Chi scrive segue le vicende del telelavoro sin dalla metà degli anni ’90, avendone studiato vari aspetti sociologici (come ad esempio il problema dell’isolamento dei telelavoratori domiciliari o le innovazioni organizzative legate alla necessità di modificare i compiti del management intermedio) sia in Italia che con studi comparativi internazionali, e soprattutto avendo “aiutato” aziende grandi e piccole e varie pubbliche amministrazioni a implementare il telelavoro nella propria pratica organizzativa. Ciò, in qualche modo mi permette di fare alcune considerazioni sulla metamorfosi del telelavoro tra oggi, ieri e domani.

Anzitutto va detto che la nuova attenzione dedicata al lavoro a distanza, qualsiasi sia la denominazione e l’accezione che se ne voglia dare, è sicuramente un fatto positivo. La società cablata globale, nella quale tutti noi viviamo, ha portato con sé enormi opportunità: oggi è possibile trovare online i prodotti più convenienti e utili per ciascuno, mettersi in contatto con vecchie conoscenze, pianificare il tempo libero e le vacanze; la lista potrebbe essere illimitata. Allo stesso tempo, le dimensioni e il ritmo dei cambiamenti hanno determinato nuove sfide per le persone, le aziende e il sistema sociale: si pensi alla difficoltà di garantire ai meno abbienti e a chi ha bassi livelli di scolarizzazione l’accesso a tecnologie che richiedono investimenti economici e competenze digitali. D’altro canto è proprio grazie alle tecnologie che nascono nuovi lavori e nuovi modi di svolgerli, e ciò apre la strada a nuova occupazione.

Un’altra delle caratteristiche cruciali della società attuale è l’aumento della complessità spaziale e temporale con la quale gli individui devono fare i conti: a loro viene richiesto continuamente di negoziare la propria presenza in una pluralità di microcosmi sociali differenti, e di organizzare il tempo tra le diverse esigenze della vita. Ciò ha messo definitivamente in crisi la tradizionale sincronizzazione dei tempi, nata nell’800 come necessità dell’industrializzazione e affinatasi nei primi decenni del ‘900, a seguito dell’introduzione del Taylor-Fordismo e della catena di montaggio. Ciò nonostante la tradizione culturale di management delle aziende e delle pubbliche amministrazioni costringe le persone a subire una rigidità dei tempi (l’orario di lavoro, il sistema delle ferie, ecc.) e del luogo in cui si svolge il lavoro (l’ufficio, la scrivania) in netta controtendenza con gli sviluppi della società in rete. Queste rigidità generano un importante danno economico: l’opportunità di fruire della grande varietà di servizi (di mercato, culturali, di intrattenimento) offerti nelle società moderne non può essere pienamente sfruttata dai cittadini se si vive in un sistema con orari predeterminati e se si trascorre un tempo eccessivo negli spostamenti da casa al luogo di lavoro e viceversa. Tutto ciò priva gli individui di una parte della giornata che potrebbe essere impiegata altrimenti. E’ chiaro che imprese e pubbliche amministrazioni attente alle ricadute economiche delle proprie azioni non possono trascurare l’impatto negativo che il perdurare di sistemi di organizzazione non congruenti con i tempi hanno nei confronti della società.

L’esigenza di una maggiore flessibilità spazio-temporale nella prestazione lavorativa è avvertita in modo particolare dai dipendenti che svolgono attività in cui sono richieste creatività e concentrazione, condizioni che si ottengono di frequente essendo liberi di scegliere orario e luogo ove prestare la propria opera. In Italia nel 2010 si stimava che almeno il 31% degli occupati operasse in un settore economico ad alta intensità di conoscenza e uno su tre usasse principalmente l’email per i contatti di lavoro, mentre i lavoratori della conoscenza veri e propri, stimati nel 2011 dall’Istat, costituiscono oltre il 13% del totale degli occupati (il 3,3% opera nell’hi-tech).

Adottare il telelavoro o la sua versione più flessibile, lo Smart Work, diventa una esigenza non più procrastinabile

Ma, nonostante tutto ciò, come nota il Politecnico di Milano, nel 2012 telelavoravano per almeno il 25% del loro tempo appena il 3% dei lavoratori italiani. Se si riuscisse a coinvolgere un numero più elevato di aziende e dipendenti, i benefici per le imprese potrebbero arrivare ad oltre 35 miliardi l’anno. E’ chiaro che, in siffatto contesto, innovare i metodi di lavoro, adottare il telelavoro o la sua versione più flessibile, lo Smart Work, diventa una esigenza non più procrastinabile. Ma in che modo lo Smart Work, o lavoro agile potrebbero fare breccia dentro imprese e pubbliche amministrazioni che sinora non hanno proprio brillato per volontà di innovare l’organizzazione e i rapporti di lavoro? In fin dei conti nelle aziende ci sono pochissimi smart workers, ma abbondano gli impiegati che dopo le ore canoniche passate in ufficio svolgono un altro po’ di lavoro da casa, proprio grazie alle tecnologie (portatili, ADSL, fibra ottica) di cui sono già dotati gli appartamenti della grande maggioranza degli italiani in età lavorativa. Ovviamente essi controllano le email da casa senza sperare in alcuna compensazione per questi straordinari telematici in parte volontari e in parte no (a volte un capo un po’ minaccioso ti cambia la vita, come insegna Robert Sutton…).

La chiave del successo del lavoro agile nella legge di stabilità 2016 dovrebbe risiedere nella flessibilità: contrattuale, in quanto ad esso non si applicano gli accordi relativi al telelavoro attualmente esistenti, e tecnologica, in quanto si prevede che il lavoratore non debba disporre di una postazione fissa per svolgere la sua opera fuori dell’azienda, ma che possa lavorare usando i propri strumenti. Ovviamente sempre che le aziende (e per la mia esperienza saranno molte) non preferiscano fornire gli strumenti di lavoro al dipendente, ad esempio per poter controllare meglio gli accessi alla rete aziendale, evitare virus informatici ai quali un computer privato è più esposto, installare software aziendali che richiedono costose licenze di uso, ecc.

A leggerla bene, anche la flessibilità contrattuale prevista dalla norma è limitata: la proposta di legge prevede che in ogni caso la prestazione debba essere disciplinata da un accordo scritto tra le parti, nel quale devono essere fissate le modalità di esecuzione della prestazione resa fuori dai locali aziendali, nonché le fasce orarie di rispetto dei tempi di riposo del lavoratore. Oltre ciò la legge definisce in dettaglio volontarietà, modi di iniziare la prestazione agile e di recedere da essa, i diritti del lavoratore e il potere di controllo e disciplinare dell’azienda, la protezione dei dati, la sicurezza del lavoro e le assicurazioni contro eventuali infortuni. Tutto sommato la legge ricalca le norme in uso in Italia per il telelavoro sin dall’Accordo quadro europeo del 2002, e ampiamente declinate in decine di contratti nazionali ed aziendali. E comunque prevede che i contratti collettivi, di qualsiasi livello, possano integrare la disciplina allo scopo di agevolare i lavoratori e le imprese che intendono svolgere prestazioni lavorative in modalità di lavoro agile.

Ma allora la flessibilità dove sta? E, soprattutto, in cosa differisce davvero il lavoro agile dal telework? Per rendere flessibile il telelavoro (e poi cambiargli nome) bisogna, come raccomandava Taiichi Ohno, il fondatore del metodo Toyota, “pensarlo all’inverso”. Anzitutto serve una distinzione tra lavori svolti sempre o quasi dalla propria abitazione (è il caso di migliaia di lavoratori che operano nei contact centre aziendali o in outsourcing e per molti dei quali la scelta del telelavoro è obbligata in quanto unica possibilità di impiego); per questi servono norme e contratti di lavoro precisi e stringenti, che prevedano non solo le tradizionali tutele, ma anche le necessità formative, il rischio di stress e di perdita della socialità.

Su un versante opposto si devono situare i telelavori svolti saltuariamente (ad esempio sino al 30-40% del tempo), che è bene chiamare Smart work o lavoro agile per distinguerlo dall’altra tipologia. In questo caso è indispensabile una normativa snella, che si basi su pochi fondamentali principi (come quelli previsti nella stabilità 2016) e rimandi i dettagli ad accordi individuali o aziendali (ma che se non esistono non devono impedire il telelavoro).

L’innovazione che vedrei davvero indispensabile è la definizione dello smart work (o lavoro agile) come un diritto del lavoratore

L’innovazione che vedrei davvero indispensabile, e di cui in Italia non si parla mai, è la definizione dello smart work (o lavoro agile) come un diritto del lavoratore; oggi solo l’impresa può decidere se telelavorare o meno, e a tale scelta si può o meno aderire; a volte, ad esempio quando si chiude una sede per aprirne un’altra in una zona più conveniente, il telelavoro diventa una scappatoia per ridurre il malcontento del personale. Rendere lo Smart work un diritto dell’individuo che può essere negato solo per serie e motivate ragioni, proprio come succede oggi per il part time, ci farebbe fare un significativo passo avanti nel processo di aggiornamento delle culture organizzative alla società in rete in cui viviamo. E a questo processo si dovrebbe conformare anche la pubblica amministrazione, dove, nonostante l’esistenza di un esteso corpus normativo da oltre 15 anni, il telelavoro è poco, farraginoso e burocratizzato. E se lo Smart work, tolto dalle mani di una dirigenza non sempre brillante, potesse aiutarci a raggiungere lo Smart Government?