Le lotte sindacali del ’69 possono essere comprese solo se vengono considerate nell’ambito di un arco temporale più ampio, che va almeno dal ’67 al ’71 (per non dire dal ’59 al ’73). Lo si vede bene, fra l’altro, se si ripercorrono due vicende sviluppatesi parallelamente tra la fine del ’67 e l’inizio del ’69: pensioni e “gabbie salariali”. Le lotte di questo intensissimo periodo di iniziativa sindacale si sviluppano a tre livelli. L’asse che possiamo definire come principale, sia per la sua capacità di impatto politico sull’opinione pubblica e sugli assetti legislativi, sia per il carattere duraturo dei risultati più propriamente sindacali, è indubbiamente quello dei rinnovi dei contratti nazionali di categoria, culminati con quello dei metalmeccanici siglato nel dicembre 1969. Molto importanti sono però anche le lotte aziendali, specie per la loro capacità di mutare in profondità relazioni industriali e condizioni di lavoro nel concreto della vita delle imprese. Ma non vanno sottovalutate neppure le iniziative “orizzontali” che hanno grande capacità di coinvolgimento sociale, mettendo in moto non solo le metropoli dello sviluppo, ma anche le più sperdute periferie.

Ed è questo appunto il caso della lotta per il superamento delle “zone salariali” che differenziavano le paghe fra territori più o meno sviluppati, penalizzando in modo particolare i lavoratori del Mezzogiorno. Oltre che della lotta per la riforma delle pensioni. La vertenza per questa riforma vedeva i sindacati opposti al governo di centro-sinistra guidato, all’epoca, dal democristiano Aldo Moro. Le trattative erano iniziate nel ’67 ma, come scrive Aris Accornero in Le lotte operaie degli anni ’60 (Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 31-32, 1971), vanno “a rilento”. Pertanto si sviluppano movimenti, scioperi, comizi, cortei per sollecitare quegli aumenti e quella riforma che erano contemplati, già per il ’67, da un accordo del ’64. “Nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 1968”, scrive ancora Accornero, viene definita “una bozza d’intesa da sottoporre agli organi dirigenti” delle tre confederazioni sindacali.

“La Cgil”, però, “ritiene necessaria una consultazione più larga al proprio interno, e l’intesa viene giudicata insoddisfacente”. La Cgil, da sola, proclama allora uno sciopero per il 7 marzo. Sciopero che “viene sostenuto unitariamente fra i metallurgici di Milano, Torino e Genova, e trascina varie forze Cisl-Uil e molti loro aderenti”. La Cgil è attenta a non esasperare la frattura. Così, quando – dopo le elezioni politiche del 19 maggio – viene avviata una nuova trattativa col governo Leone, la vertenza può riprendere il suo carattere unitario. Una nuova rottura porta con sé una svolta storica: per la prima volta dopo venti anni, Cgil, Cisl e Uil proclamano unitariamente uno sciopero generale per il 14 novembre.

È un fatto di “enorme importanza”, come scrive già allora Silvano Verzelli, della segreteria Cgil, su Rassegna Sindacale. Ma il governo Leone non ha ancora colto il messaggio. Il ’69 si apre così all’insegna della lotta per la riforma previdenziale. “Mercoledì 5 febbraio sciopero per le pensioni”: è questa la scritta che campeggia su uno dei manifesti sindacali affissi in quei giorni. E l’accordo, finalmente, arriva. “La vertenza delle pensioni – scrive ancora su RassegnaVittorio Foa – si è conclusa con risultati importanti”. Fra l’altro, crescita dei rendimenti per le pensioni con 40 anni di anzianità dal 65% della retribuzione al 74% da subito, e all’80% dal 1976. Inoltre, aumenti dei minimi e introduzione di una indicizzazione rispetto al costo della vita. Poco dopo, il 18 marzo, un accordo con la Confindustria sancisce la fine delle “zone salariali”.