Tulkarem (Cisgiordania). A volte accade che il lavoro strozzi il lavoro. Che dodici fabbriche chimiche uccidano salute e terre agricole. Se in Italia è l’Ilva di Taranto a tenere banco, in Cisgiordania la sua gemella è Tulkarem, città palestinese a Nord Ovest della Cisgiordania, 59 mila abitanti, due campi profughi e 42 villaggi nel distretto.

Le dodici fabbriche chimiche israeliane che stanno lentamente uccidendo la città, il suo mercato del lavoro e le sue terre, non hanno portato nuove opportunità di lavoro, almeno per i residenti in quei territori. Sono pochissimi infatti i palestinesi impiegati nella zona industriale israeliana, sorta su terre agricole confiscate a Tulkarem e ai suoi abitanti. Tulkarem era una città ricca, snodo commerciale ed economico per l’intera regione araba perché luogo di transito delle rotte verso Siria ed Egitto grazie alla linea ferroviaria turca che attraversava la città. Nel 1985 un ex ufficiale dell’esercito israeliano fu autorizzato da governo di Tel Aviv a costruire una fabbrica chimica per il riciclo della plastica.

L’industria Kashuri, prima di stanza nella vicina città israeliana di Netanya (soltanto 12 km da Tulkarem), è stata trasferita in Cisgiordania dopo che i residenti israeliani avevano promosso una petizione contro l’inquinamento prodotto dalla fabbrica. Per la costruzione della Kashuri l’esercito israeliano ha confiscato 22 dunam di terra (pari a 22 km²), di proprietà della famiglia palestinese Abu Sham’a. Il muro di separazione, costruito nel 2002, ha fatto il resto. Oggi a separare Tulkarem dallo Stato di Israele sono chilometri di cemento, utilizzati per annettere le terre dove ora sorge la zona industriale.

“L’occupazione israeliana ha creato nella nostra città una colonia economica e industriale – spiega Sharif Shahroroi, leader dell’associazione Society of Social Work Committees –. Dopo la Kashuri, infatti, sono sorte altre undici industrie chimiche. Uno sviluppo lanciato in pompa magna soprattutto a seguito degli Accordi di Oslo. L’ultima è stata inaugurata nel 2007. E se prima tutta la città era in Area A (sotto il controllo militare e civile palestinese), ora la zona industriale è finita nella ‘Seam Zone’, striscia di terra tra il Muro e la Linea Verde sotto diretto controllo israeliano: in questo modo è stata creata una colonia industriale e il Muro l’ha in sostanza legittimata”. Numerose le ragioni di convenienza per Israele: Tulkarem è vicino alla Linea Verde (confine ufficiale tra Israele e Cisgiordania) e quindi al mercato israeliano; il costo del lavoro è significativamente più basso e ai lavoratori palestinesi non viene applicata la legge israeliana sul lavoro, ma quella giordana del 1964.

Meno diritti, meno tutele, senza contare le consistenti esenzioni nel pagamento delle tasse al governo di Tel Aviv. “Attualmente sono circa 500 i lavoratori impiegati nelle dodici industrie chimiche – prosegue Sharif –. Sono sia israeliani che palestinesi, e provengono da Tulkarem, Jenin e Nablus. Gli effetti di una simile produzione sono visibili concretamente sia sulla salute delle persone sia sulla terra: gli appezzamenti vicini alle fabbriche sono stati confiscati illegalmente e molti residenti si stanno spostando a causa dei fumi e dei gas provenienti dalla zona industriale”.

Non è facile ottenere dati esatti sugli effetti che la zona industriale ha prodotto e continua a produrre: più volte il Comitato Popolare della città ha tentato di esaminare campioni di terra e di acqua, ma in Cisgiordania laboratori specializzati non esistono e i campioni portati in Israele tramite il sostegno di associazioni israeliane di solidarietà non sono stati mai esaminati dai laboratori medici e chimici.

A cercare di fare chiarezza ci sono solo gli studi condotti dall’Università di Birzeit e dal ministero palestinese della Salute: i gas emessi avrebbero livelli di monossido di carbonio elevati e conterrebbero sostanze velenose che provocano cancro e malattie respiratorie. Una ricerca del 2001 di Issam Mohammed Qasem, condotta all’Università An Najah di Nablus, ha riscontrato la presenza di tumori o di malattie strettamente legate all’inquinamento chimico sul 77 per cento dei palestinesi residenti nelle vicinanze. A colpire sono in particolare le malattie respiratorie: il 7,6 per cento dei residenti di Tulkarem è affetto da asma, infezioni alla gola e ai polmoni, quando la percentuale media fuori dalla città non supera il 2,5 per cento. Non solo: oltre 300 dunam di terra fertile sono stati contaminati dalle emissioni, mentre analisi della composizione dell’acqua hanno mostrato un elevato tasso di sale. La ricerca di Qasem elenca le sostanze trovate in due degli impianti che raccolgono gli scarichi della zona industriale e che si trovano a pochi metri da due sorgenti d’acqua: resina liquida di perossido organico (per la preparazione di colle), fibre di amianto, antibiotici vari, fosforo, polietilene e polipropilene (plastica), potassio, lattice, anidride ftalica (per la produzione di farmaci, insetticidi e coloranti).

La prova della nocività delle dodici industrie chimiche è indirettamente confermata anche dai turni di lavoro della zona industriale israeliana. “Basta guardare quando le fabbriche lavorano – spiega Sharif –: se il vento spira verso Est, ovvero verso la Cisgiordania, la produzione è a pieno regime. Se tira verso Ovest, verso Israele, i macchinari vengono spenti. Ma questo non basta, e anche le città israeliane vicine sono colpite: qualche anno fa abbiamo presentato una petizione congiunta alla Corte Suprema israeliana. Ma il tribunale ha rifiutato di emettere una sentenza perché l’area non è sotto giurisdizione israeliana, in quanto terra palestinese. Insomma, oltre al danno la beffa”.