A oltre mezzo secolo di distanza dalla pubblicazione del settimanale sindacale “Lavoro”, come valutare quell’esperienza editoriale che ha rappresentato l’unico “giornale di massa” della Confederazione? E, soprattutto, che cosa può insegnarci ancora oggi quell’esperienza dal punto di vista della capacità di rinnovamento degli strumenti di comunicazione del sindacato? Quale modello informativo possiamo immaginare con l’obiettivo di renderlo altrettanto efficace a porre al centro dell’attenzione il mondo del lavoro?

» Video, il rotocalco della Cgil

Questi interrogativi hanno rappresentato il punto di partenza del dibattito che si è tenuto lo scorso lunedì 5 ottobre a Milano in occasione della presentazione del volume (curato dalla sottoscritta) “Lavoro. Il rotocalco della Cgil (1948 – 1962)”, all’interno del quale si è aperto un confronto di idee tra i diversi relatori (tra cui Alberto Abruzzese, Gianni Cervetti, Giancarlo Pelucchi, Stefano Landini, Tarcisio Tarquini) su quali fossero oggi i linguaggi, i modelli editoriali e i canali di comunicazione più appropriati per rilanciare i temi e problemi del mondo del lavoro. Dinanzi a un sistema informativo che marginalizza sistematicamente le tematiche del lavoro o che, ancora più spesso, ne distorce i significati reali, interrogarsi su come aggirare il gatekeeping giornalistico e come riuscire a influenzare il discorso pubblico conquistando il consenso intorno alle proprie politiche, non appare un esercizio di retorica e fine a se stesso.

Se proprio negli anni in cui veniva dato alle stampe il settimanale “Lavoro” si assisteva alla graduale diffusione di massa dei cosiddetti status symbol della modernità e all’affermazione di modelli e stili di vita consumistici, oggi dobbiamo constatare che accanto al fenomeno della mediatizzazione della società (e della politica) si è però consolidata quella che Manuel Castells chiama la “Network Society”. E che grazie alla centralità assunta dalle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione è diventato più facile, persino per i soggetti estranei alla sfera istituzionale, produrre contenuti informativi originali, diffondere notizie in maniera autonoma, veicolare le proprie posizioni e visioni politiche. Per questo le principali riflessioni emerse dalla tavola rotonda milanese hanno indicato proprio nelle opportunità offerte dal web una strada che, sebbene non rappresenti “la soluzione” del problema, costituisce però un’opzione da percorrere, un canale comunicativo che vale la pena utilizzare in tutte le sue potenzialità.

Perchè, ci si è chiesti infatti, un soggetto sociale come la Cgil, che si caratterizza come una rete di nodi già in se stessa, non dovrebbe investire proprio nelle tecnologie di rete? Perché non dovrebbe valorizzarne il loro potenziale partecipativo, la logica flessibile, collaborativa e decentrata delle applicazioni più recenti? Esattamente queste caratteristiche ci sembrano rispondere bene agli obiettivi di un soggetto sociale che non solo è interessato a dialogare continuativamente con la propria base, con i lavoratori, i giovani, i disoccupati, gli immigrati, ma che, soprattutto, si prefigge di riuscire a coinvolgerli e organizzarli, scuotendoli da una pericolosa indifferenza che spesso ha il sapore della rassegnazione.

Un’indifferenza, peraltro, che è anche frutto della diffusione massificata della cultura televisiva, non perché – come sostengono i teorici della “videomalaise” – l’alto consumo di televisione genera automaticamente minore interesse per la vita pubblica e minore partecipazione politica. Piuttosto, perché la tematizzazione del lavoro da parte media mainstream, le rappresentazioni che forniscono di quell’universo, dei suoi protagonisti e dei suoi temi, sono per lo più prive di problematizzazione politica: interpretazioni al singolare del mondo del lavoro, volte a sradicare la vicenda umana e privata del singolo lavoratore dal significato generale di quella storia.

Esemplificativo di questo approccio è il modo in cui si parla in televisione degli incidenti e dei morti sul lavoro; prevale quasi sempre la retorica del caso personale, del singolo “sfortunato” rimasto ucciso, ferito o caduto mentre lavorava. Un “caso umano” decontestualizzato dalla problematica delle insufficienze del Paese nella gestione delle politiche della sicurezza sul lavoro. Una storia personale che, priva di una cornice tematica che ne illustri il contesto, le cause, il background e le prospettive, non favorisce un’interpretazione della vicenda all’interno di un quadro più ampio di responsabilità politiche e sociali.

Tornando invece all’esperienza del periodico sindacale diretto da Gianni Toti, merita un momento di riflessione la scelta editoriale di lanciare un “giornale di massa” nella veste del rotocalco. “Lavoro” non si limitò ad adottare il nuovo modello giornalistico “piegandolo” per vecchie esigenze: orientare e formare - come aveva fatto fino a quel momento il sindacato- i propri militanti ed iscritti, secondo i canoni del “giornale didattico” e di una logica di comunicazione verticale (dall’alto verso il basso) e unidirezionale. Toti e la sua squadra, tra cui una giovane Lietta Tornabuoni, un “genio della fotografia” come Ando Gilardi, un ancora sconosciuto Mario Pirani e tanti altri, cercarono – e in molti casi trovarono - un nuovo modo di fare informazione e cultura. Rivolgendosi direttamente a tutti i lavoratori italiani e alle loro famiglie, aprendo un dialogo costante e diretto con i lettori, inaugurarono quello che oggi definiremmo un “giornale partecipativo”, un modello orizzontale di comunicazione.

Il settimanale “Lavoro”, grazie all’estro creativo dei suoi redattori, alle firme di prestigiosi collaboratori delle pagine culturali (Luigi Cocheo, Giuseppe Dessì, Leonardo Sciascia, Niccolò Gallo, etc.), agli spunti e sollecitazioni emerse direttamente dai propri lettori, riuscì a sottrarsi dal rischio di un fallimentare tentativo di “scimmiottamento” degli altri rotocalchi allora in voga, realizzando un giornale originale per i contenuti ed esteticamente in grado di competere con gli altri periodici presenti sul mercato.

Se al pari di quel risultato si riuscisse oggi a valorizzare fino in fondo le potenzialità delle tecnologie on line per promuovere il lavoro, per rilanciarne la sua funzione essenziale di fattore di sviluppo e crescita sociale, già potremmo dirci a metà dell’opera nel tentativo – come dichiarato in apertura – di individuare un nuovo modello informativo, coerente con la mission del sindacato e la sua struttura organizzativa.