Lavoro
di Michele Raitano

La possibilità di lavorare presuppone l’incontro fra l’offerta, condizionata dalle caratteristiche dei lavoratori e dalle forme contrattuali, e la domanda da parte delle imprese. La visione che ispira i provvedimenti dell’attuale governo – dal “decreto Poletti” al Jobs Act, alla bozza di legge di stabilità – trascura il lato della domanda e ritiene che interventi dal solo lato dell’offerta rappresentino una condizione necessaria e sufficiente per far ripartire il processo di crescita occupazionale e, più in generale, garantire la ripresa della crescita economica in Italia. I provvedimenti del governo introducono, infatti, un’ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro e affidano le prospettive di crescita agli effetti propulsivi che verrebbero generati dalla facilità di assumere e licenziare e dalla riduzione del costo del lavoro legata agli sgravi Irap e alla fiscalizzazione degli oneri contributivi per i neoassunti (senza, al momento, prevedere sanzioni in caso di successivi licenziamenti).

In linea con le miopi ricette delle istituzioni comunitarie per fronteggiare la crisi di competitività dei paesi dell’area euro, la deregolamentazione del mercato del lavoro è ispirata anche, se non soprattutto, dalla volontà di indebolire la forza contrattuale dei lavoratori per favorire un’ulteriore riduzione dei salari che consenta alle imprese di abbassare il costo del lavoro e continuare a competere nei mercati internazionali. Non c’è invece traccia di interventi che, seguendo una strategia più complessa da adottare e di minor impatto mediatico, ma sicuramente più efficace nel lungo periodo, provino a modificare le condizioni della domanda di lavoro, attraverso un coraggioso piano di investimenti pubblici e misure di politica industriale e creditizia che forniscano agli imprenditori incentivi e opportunità per spostare la produzione verso segmenti più innovativi.

La visione del governo discende dalla convinzione che il mercato del lavoro italiano sia caratterizzato da un’eccessiva rigidità della normativa e che allentare la rigidità sia sicuramente benefico. In precedenti interventi su Rassegna ho argomentato, sulla base di un’attenta analisi dei dati, che la supposta rigidità del mercato del lavoro italiano è un falso mito e che tale mercato, anziché da un apartheid degli anziani ipergarantiti contro i giovani sfruttati, è caratterizzato da una sorta di “liquidità”, dato che gran parte dei lavoratori, indipendentemente da età, contratto, settore e dimensione di impresa, è poco pagata e molto vulnerabile. In presenza di una debole domanda di lavoro e di una struttura produttiva indirizzata alla compressione dei costi piuttosto che a scelte verso investimenti innovativi (e le misure governative rafforzerebbero questi incentivi), l’effetto occupazionale degli interventi in discussione potrebbe essere peraltro molto limitato e di breve durata.

Deregolamentazione del mercato del lavoro e nuovi incentivi di costo potrebbero permettere alle aziende e all’economia italiana di sopravvivere nell’immediato, ma non le incentiverebbero affatto a porsi su quel sentiero di competitività ad alta qualità che consentirebbe, invece, migliori prospettive di lungo periodo per i lavoratori e per il sistema economico. Due semplici considerazioni evidenziano chiaramente come i problemi del mercato del lavoro italiano discendano in prima misura dai vincoli della domanda. In Italia, nonostante siano relativamente pochi e meno pagati che altrove, i laureati incontrano notevoli difficoltà a ottenere mansioni adeguate al loro capitale umano e sono i lavoratori che hanno subìto, in termini relativi, le maggiori cadute retributive in confronto agli appartenenti alle generazioni precedenti. E ancora, se i limiti agissero unicamente dal lato dell’offerta, l’aumento dell’età pensionabile avrebbe dovuto offrire opportunità occupazionali sia ai giovani che agli anziani, anziché aumentare i rischi di disoccupazione di entrambi i gruppi. In generale, politiche economiche che si focalizzino su un solo aspetto e siano prive di visione strategica rischiano di essere inefficaci o dannose.

Una strategia di crescita di lungo periodo richiederebbe un complesso di interventi che agiscano su tutti i lati di tutti i mercati e non si limitino al solo lato dell’offerta del solo mercato del lavoro, sulla base, peraltro di “falsi miti”. È allora utile concludere ricordando le caratteristiche del modello danese di flexicurity, considerato negli ambienti della maggioranza da imitare, perché ritenuto semplicisticamente basato su elevata flessibilità delle relazioni contrattuali associata a generose tutele di welfare ed estese politiche attive. Il modello danese, lungi dall’essere un mero caso di successo di politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro, nasce invece da una strategia in cui ingredienti fondamentali sono politiche macroeconomiche espansive, alti livelli salariali, la fiducia fra le parti sociali, l’omogeneità territoriale e, soprattutto, un sistema produttivo di piccole imprese specializzate in attività ad alto contenuto di innovazione e ricerca che, per tale motivo, necessitano sì di flessibilità, ma soprattutto di forti azioni di riqualificazione della forza lavoro. Al di là del fatto che in Italia siamo ben lontani dall’introdurre politiche attive e passive paragonabili a quelle del Nord Europa, i “modelli paese” funzionano se sono coerenti con la struttura economico-istituzionale di quella realtà. Replicarne un singolo pezzo potrebbe generare crisi di rigetto. In Italia, come detto, flessibilizzazione e sgravi di costo potrebbero rappresentare solo un mezzo per migliorare nel breve termine la competitività di prezzo, restringendo la strada verso la riconversione della produzione in settori maggiormente innovativi. Ma di riflessioni articolate non c’è al momento spazio nel dibattito politico in corso, e non solo nello studio televisivo di Barbara d’Urso.


***

Dignità
di Stefano Anastasia

La triade “lavoro, dignità, uguaglianza” fa immediatamente tornare alla memoria quello che viene ricordato come il primo insegnamento di Giuseppe Di Vittorio ai suoi compagni: incrociando il padrone, i braccianti non dovevano scoprirsi il capo in segno di omaggio e di sudditanza. “Anche allora – diceva Di Vittorio – senza intenderlo appieno, facevo un’opera di educazione e di scuola di dignità”. Nulla più di questa immagine ci restituisce il compito storico a cui il movimento sindacale ha adempiuto nel corso del Novecento. Il lavoro nei campi e nelle fabbriche generavano la ricchezza dei proprietari fondiari e dei capitani d’industria, e dunque nessuna genuflessione era loro dovuta, ma solo il rispetto giustificato in condizioni di reciprocità, come è tra i pari “in dignità e diritti”.

Si compie così la parabola dell’universalismo dei diritti, ben oltre le originarie motivazioni della rivoluzione borghese. Il negletto Novecento è stato il secolo della cittadinanza sociale dei lavoratori, della cittadinanza politica delle donne e dell’universalità dei diritti umani. Fino ad allora, è bene ricordarlo, la stessa parola “dignità” ha avuto un significato ambiguo, così come la retorica dei diritti. Quando dignità e diritti non si sposavano con l’eguaglianza si presentavano sulla scena pubblica come affermazioni di privilegio, di chi aveva dignità, di chi aveva diritti, di chi poteva rivendicarli.

Non dobbiamo dimenticare che a lungo – troppo a lungo – la dignità è stato un segno distintivo di quelli che erano reputati “i migliori” in regimi aristocratici. Fino all’altro ieri, la dignità era l’attributo dei dignitari, di coloro che si distinguevano nella gerarchia dei gruppi e delle comunità umane per titoli e poteri. E, in quel modo di concepire la dignità, essa era per sua natura esclusiva: se tutti ne fossero stati titolari, la dignità non avrebbe avuto più valore. È questa l’origine delle teorie della dignità per prestazione, che la riconoscono solo a chi la meriti. La dignità in quelle teorie è una qualità sub iudice, costantemente affidata al placet di un potere, quale che esso sia. Essa presuppone un’autorità che la riconosca sulla base di standard di comportamento cui attenersi: si è degni se ci si conforma ai criteri di giudizio di chi ha il potere di dichiararlo.

Al contrario, la dignità del bracciante di Cerignola poggia sull’eguale umanità degli appartenenti al genere umano. Ne è una concezione universalista, che ha radici culturali tanto remote nel tempo, quanto recente è la sua affermazione. La tradizione cattolica la fa risalire alla qualità specifica degli esseri umani, fatti ciascuno a immagine e somiglianza di Dio, come è scritto nella Genesi a proposito di Adamo. A Kant, invece, dobbiamo la reinvenzione laica e moderna della dignità universale degli esseri umani: “L’uomo, e ogni essere razionale in genere, esiste come scopo in se stesso, e non solo come mezzo perché sia usato da questa o quella volontà; in tutte le sue azioni, dirette sia verso se stesso sia verso altri esseri razionali, esso dev’essere sempre considerato, al tempo stesso, anche come un fine”. Un essere umano, diremmo noi (uomo o donna che sia), non può essere considerato esclusivamente un mezzo per fini altrui senza decadere a cosa, mera oggettività, strumento di fini che gli sono estranei.

Questo principio implica che un essere umano (anche l’autore del più efferato reato) non possa essere messo a morte: la sua esecuzione infatti perseguirebbe esclusivamente fini non suoi, quali possono essere quelli (presunti) della sicurezza immediata (attraverso la sua eliminazione fisica) o mediata dall’esempio nei confronti del prossimo (secondo le teorie della prevenzione generale cui assolverebbe la pena) che ne verrebbe. E per la stessa ragione le carte dei diritti internazionali vietano il lavoro forzato e il lavoro minorile: nell’uno come nell’altro caso, la prestazione lavorativa non è effettuata in maniera volontaria e consapevole, per l’interesse o la passione di farla o per conseguire propri, legittimi fini (guadagnare il necessario per vivere liberamente), ma sarebbe mera riduzione a cosa della persona attraverso l’espropriazione della sua forza lavoro.

Se, come scriveva Hannah Arendt, “il diritto ad avere diritti” è “il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità”, possiamo identificare con esso anche la dignità umana: la dignità umana è il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, e dunque ad avere diritti. Come la libertà, l’uguaglianza e la fraternità non sono diritti, ma principii-fine della vita e della convivenza umana, così la concezione universalistica della dignità è la pre-condizione dell’eguale libertà e della fraternità possibile tra gli esseri umani. Tutto questo era nella tradizione e nella cultura europea da molti secoli, ma solo l’organizzazione dei lavoratori ha potuto far sì che esso potesse essere scritto nero su bianco nei documenti fondativi del costituzionalismo contemporaneo e del diritto internazionale dei diritti umani.

“I diritti dell’uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici”, scriveva Norberto Bobbio, e cioè “nati in certe circostanze, contrassegnati da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri”. Tra questi, nel Novecento, hanno potuto affermarsi come mai prima i diritti dei lavoratori e dei salariati. La nostra Costituzione, all’articolo 3, non afferma solo la famosa distinzione tra eguaglianza formale e eguaglianza sostanziale, obbligando la Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. L’articolo 3 della Carta si apre infatti con il riconoscimento della “pari dignità sociale” di tutti i cittadini (e di tutte le cittadine, e di tutti i non cittadini diremmo noi con la migliore giurisprudenza costituzionale). La “pari dignità sociale” è lì, a garantire libertà ed eguaglianza per ciascun essere umano contro il rischio o la tentazione che la libertà di alcuni cerchi di imporsi su quella di altri fino al punto di negare loro il diritto ad avere diritti, per esempio impedendogli di andare dal giudice quando si viene licenziati senza giusta causa.


***

Uguaglianza
di Michele Prospero

Dire, come fanno gli economisti americani più autorevoli, che all’origine della grande crisi scoppiata nel 2008 ci sono dei palesi problemi di diseguaglianza cresciuta è un modo diverso per sostenere che a provocarla sono state anzitutto l’intensificazione dello sfruttamento, la drammatica perdita di valore del lavoro, l’introduzione di contratti all’insegna della precarietà giovanile come varianti di figure servili. Le pratiche speculative irresponsabili adottate dalla finanza globale sono solo un epifenomeno, appariscente e cinico nei suoi risvolti, ma non la causa reale dei crampi prolungati del sistema economico. Dietro la grande contrazione globale, prima ancora delle consuetudini amorali degli agenti della finanza, c’è un mutamento epocale intervenuto nei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Per circa 30 anni, il lavoro, grazie alle sue organizzazioni sindacali e ai suoi soggetti politici di riferimento nelle istituzioni di governo, ha strappato diritti, ha concordato politiche pubbliche e ha indotto il profitto privato al reinvestimento produttivo e alla redistribuzione del reddito per sostenere la strategia di cittadinanza e la relativa forma di mobilità sociale. Appena però i margini di plusvalore si sono ristretti, l’impresa ha preso le sue contromosse strategiche: delocalizzazione, liberalizzazioni, deregolamentazione del mercato globale, precarietà, privatizzazioni, cancellazione dell’influenza legislativa del sindacato. Così, spostando la contesa nello spazio globale incustodito, dove si assiste alla riesumazione della lex mercatoria, e sganciando il conflitto dal terreno troppo insidioso coperto dallo Stato e dalle elezioni competitive, ha ristretto i margini della democrazia e ha ampliato il dominio reale del capitale.

L’eguaglianza perduta ha a che fare con lo svuotamento sostanziale della democrazia ordinato dal capitale, che ha raggiunto una più fitta interconnessione nelle reti globali della produzione e se ne avvale con insistenza per ricattare, sorvegliare, minacciare sfaceli in caso di inopinata adozione di politiche poco in sintonia con quelle reclamate dai signori della concorrenza e ventilate dalle influenti agenzie di valutazione. Per comprendere il senso dell’eguaglianza smarrita, più che alle rassicuranti formule di un certo costituzionalismo dal tono aconflittuale (nelle pure carte fondamentali, solennemente proclamate in ogni dove, esso trova la risposta a tutto, e quindi i giudici delle leggi sono preferiti alla lotta e al sindacato di classe), occorre guardare a una riflessione di Spinoza. Il filosofo olandese scriveva nel Trattato teologico-politico che “il mio diritto è determinato esclusivamente dalla mia potenza”. Se un soggetto o una classe non ha la potenza sociale effettuale, per sorreggere un diritto rivendicato o anche un tempo promulgato in una qualche norma, la sua richiesta di tutela nei diritti si riduce a una pretesa vuota. Il diritto esigibile ha sempre dietro la potenza, senza di essa l’eguaglianza è un’istanza etica, priva di una stringente presa reale. Spinoza aggiungeva anche che “se uno trasferisce all’altro una parte della potenza di cui dispone, cede anche, necessariamente, una parte corrispondente del suo diritto”.

Sul versante dei rapporti sociali, ciò significa che se una classe perde la potenza, e quindi la sua forza reale di interdizione svanisce, i diritti diventano delle mere formule edificanti. La potenza sociale del lavoro è all’origine dei principali diritti riconosciuti a tutti i cittadini nella loro vita di relazione. Molti diritti sociali divenuti fondamentali, prima sono nati in fabbrica, strappati con la dura lotta operaia, e poi si sono istituzionalizzati, estesi per legge a tutti i cittadini, quali contrassegni della civiltà giuridica moderna. L’eguaglianza reale rinvia perciò alla centralità costituzionale della classe lavoratrice che con i suoi conflitti ha indotto il capitale a ricorrere a forme di civilizzazione del suo dominio. Senza questa potenza organizzata del lavoro, la stessa che ha redatto lo Statuto dei lavoratori che il governo vorrebbe strappare, il capitale torna alla sua vocazione originaria: quella di ridurre il salario del corpo che lavora al livello assai angusto della mera sussistenza fisica, della riproduzione delle condizioni di vita elementare della forza lavoro.

Dietro ogni libertà dei moderni che segue lo spirito dell’eguaglianza c’è la memoria di un conflitto di classe superato e di uno scontro politico vinto, cioè l’eco di battaglie di massa per costringere il capitale a riconoscere che quella del lavoratore non è soltanto un’energia fisica acquistabile a buon mercato con la fictio juris del contratto. È un soggetto che, solo se rinuncia a essere un atomo irrelato e scopre l’arte dell’associazione con gli altri per accumulare una stabile potenza collettiva, acquisisce la dignità sociale della persona ed edifica una città più eguale. A chi sostiene che l’esagerata libertà conservata per i padri garantiti succhia la libertà ormai violata dei figli precari va ricordato che è esattamente il contrario: solo la difesa vittoriosa di antichi diritti del lavoro, la sconfitta dell’inaudita volontà di potenza del capitale e del governo dei suoi sogni, può restituire dignità al lavoro di tutti.

Non esistono giovani e anziani, ma capitale e lavoro impegnati nella multiforme lotta per l’eguaglianza o per la discesa nella marginalità sociale. Chi lo dimentica non compie un’operazione neutra, irrilevante, dà un contributo all’isolamento del sindacato. Per la prima volta dal dopoguerra, la classe lavoratrice italiana scende in piazza a difendere dei diritti irrinunciabili e a tracciare nuovi percorsi di eguaglianza senza la presenza di alcun partito amico. Il sociale senza il politico non è mai un indizio di forza. Al contrario, è un’esperienza drammatica per il mondo del lavoro, mai così diviso e abbandonato dalla politica. Ma riconoscere la condizione di estrema solitudine, non occultarla, è la strada migliore per ricostruire una potenza sociale del lavoro, che se ritroverà un sostegno di massa non lascerà certo indenni gli equilibri precari delle sbiadite forze politiche odierne. Per questo piazza San Giovanni, come in altri tempi, torna a essere la bella piazza della politica e della libertà, il luogo vitale per la ricostruzione della potenza del lavoro e per la ricerca dell’eguaglianza, ancora possibile.