Le prime scosse erano iniziate a dicembre, ma fu qualche mese più tardi, il 6 aprile del 2009, alle 3.32, che la terrà tremò con fatale intensità, raggiungendo la magnitudo 5,9 della scala Richter. Da allora, a L’Aquila, nulla è più tornato come prima. “Viviamo male. Tanta gente si è rinchiusa in se stessa. In mancanza di luoghi di aggregazione, molti preferiscono rimanere in casa. Io ho trovato nell’impegno sociale una risposta alle domande della mia esistenza”. Annalucia Bonanni insegna alle superiori, ed è membro del comitato cittadino “3 e 32”. La filosofia che anima l’organizzazione, tra le più importanti e strutturate, è quella della ricostruzione partecipata. Ciò per cui ci si batte è la riedificazione del centro storico, secondo modalità che tengano lontani gli speculatori e restituiscano agli aquilani una vita normale. La distruzione dei luoghi ha coinciso infatti con la disgregazione del tessuto sociale; ha significato la perdita di un’identità, oltre che dell’abitazione.

L’Aquila era una città bellissima e vivace. La vita si svolgeva nei vicoli, nelle stradine dove aveva sede ogni attività. Gli aquilani amavano piazza Duomo, incontrarsi in quello che era il punto di ritrovo per giovani e anziani. La piazza era il simbolo stesso della città. Qui risiedeva la memoria collettiva. Oggi il centro storico è una zona rossa dove le persone non possono tornare.

A distanza di due anni dal terremoto, i lavori per la ricostruzione non sono stati avviati e risulta sempre più difficile intravvedere una prospettiva di sviluppo a breve termine. I più anziani sanno che non potranno mai più rientrare nelle proprie abitazioni. Ma, oltre ai lutti e all’impatto sconvolgente dell’evento sismico, gli aquilani hanno affrontato cambiamenti repentini dello stile di vita. I nuovi poli di attrazione sono i centri commerciali. I giovani si incontrano anche nei parcheggi, o in bar che non sono più quelli di un tempo.

Solo il 30 per cento delle attività commerciali ha ripreso a funzionare, riallocate in un’area diversa da quella originaria. Ogni volta che occorre svolgere una commissione, bisogna ricordare dove si trovava il posto da raggiungere prima del terremoto, informarsi se esiste ancora, e dove.

La cosiddetta new town è prima di tutto un’espressione che gli aquilani detestano. Gli alloggi del Progetto Case sono stati costruiti in un terreno agricolo lontano dal nucleo abitativo precedente, privo di servizi e di collegamenti. Le Case non sono altro che un’oasi in mezzo al nulla. E le manovre economiche del governo non hanno risparmiato i terremotati, infliggendo tagli che rendono ancora più affannoso il ritorno alla normalità.

Vezio De Lucia, urbanista, ricorda L’Aquila prima del terremoto. “Una città composta da sessanta frazioni, dove viveva circa un terzo della popolazione. Questa pluralità di nuclei era tenuta insieme da un’area centrale abitata dai due terzi degli aquilani. La vita delle persone si svolgeva nel centro storico. Era qui che si passeggiava, si lavorava, avevano sede servizi, istituzioni, luoghi di ritrovo e attività ricreative. Tutto ciò non esiste più, non solo come conseguenza dell’evento sismico. Il modello di ricostruzione ha infatti imposto un’altra concezione di città, in cui il rapporto tra centro e periferia viene completamente ribaltato. Oggi, la maggior parte della popolazione vive sparpagliata, lontana da quello che un tempo fu il cuore pulsante dell’Aquila. Una scelta, questa, che ritengo del tutto sbagliata”.

“Le abitazioni disseminate su tutto il territorio - prosegue De Lucia - esasperano la tendenza al decentramento. La decisione, presa nel fuoco dell’emergenza, ha avuto effetti disastrosi. La città nuova, come impropriamente viene definita, non è altro che un insieme di tanti piccoli quartieri privi di servizi. Un problema, questo dei servizi, che assorbe le risorse necessarie alla riedificazione del centro storico. Occorreva avviare da subito la riattivazione delle abitazioni e delle strutture meno danneggiate, per consentire agli aquilani di ripopolare il nucleo originario della città.

Secondo l’urbanista è evidente “la contrapposizione tra l’urbanistica come disciplina che tutela i valori collettivi e il bene comune, da un lato, e una soluzione privata dei problemi, dall’altro. Un contrasto che può essere ben sintetizzato dal binomio casa-città. La casa va pur sempre inserita in un contesto più ampio, che è appunto la città. C’è stata una pressione esasperata, anche nella rappresentazione mediatica della ricostruzione, sul primo aspetto, tralasciando l’importanza di una visione più articolata e strategica del problema. Cosa ancor più grave, ci si è illusi di poter creare una nuova identità per L’Aquila senza coinvolgere minimamente i cittadini, non permettendo loro di esprimersi. Il ruolo della mancata o distorta comunicazione è stato centrale nell’intera vicenda.

Adesso, prosegue, “bisogna far ritornare gli abitanti nei vecchi alloggi, promuovere la partecipazione dal basso e ristabilire una situazione ordinaria. Quando si verificò il terremoto nel Friuli, ma penso anche ai casi più recenti di Marche e Umbria, ci fu una netta differenza tra la fase dell’emergenza, gestita dalla protezione civile, e quella della ricostruzione, affidata ai poteri istituzionali. A L’Aquila i due momenti si sono sovrapposti. Bertolaso ha deciso per il futuro della città senza chiedere nulla agli aquilani”.

Molti giovani hanno scelto di non abbandonare la città. Resistono per darle un futuro. Chi ha maggiore difficoltà a reagire sono gli anziani: adattarsi a nuove abitudini continua a rappresentare un dramma. Nell’assegnazione delle case tanti di loro, specie se soli, sono rimasti in fondo alle graduatorie per la necessità di offrire priorità alle famiglie. C’è chi era autonomo, ed è dovuto tornare a vivere con i parenti. Ci sono anziani che non hanno più rivisto i propri amici, i vicini di casa. Senza più uno scopo, si arrendono alla solitudine, si ammalano di depressione, si lasciano morire. “Eppure proprio gli anziani, coloro che serbano la memoria della città, potrebbero offrire un contributo prezioso per la sua ricostruzione”, ricorda Loretta Del Papa, segretaria generale dello Spi Cgil dell’Aquila. (L’argomento sarà affrontato, fra gli altri, nel corso del Convegno nazionale “Ricostruire il futuro. Proposte a due anni dal terremoto”, che si terrà in città il 13 aprile, cui lo Spi ha offerto un importante sostegno).

C’è da rimettere in piedi un’intera società e da far ripartire l’economia. Nel 2009 hanno perso il lavoro nella provincia 5.700 persone, 3.500 nel territorio del cratere. L’anno successivo c’è stato un aumento degli iscritti alle liste di mobilità del 60 per cento. Nel primo bimestre del 2011 la cassa integrazione ordinaria nel settore dell’industria è aumentata del 482 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010. La cassa integrazione in deroga è cresciuta del 2.500 per cento. In una situazione in cui mancano i soldi per pagare i fornitori, la spesa è ancora vincolata all’emergenza. “Senza il lavoro la ricostruzione non ha senso – sottolinea Umberto Trasatti, segretario generale della Cgil aquilana –. Al di là delle chiacchiere, nessun provvedimento è stato assunto per sostenere l’occupazione. Chiediamo che almeno il 20 per cento delle risorse stanziate sia speso per il capitolo del lavoro”.

La Cgil vuole il finanziamento dei contratti di programma per incentivare il rilancio dell’economia e la modifica del provvedimento sulla zona franca urbana, decisa per aiutare le piccole imprese nate dopo il 6 aprile. Occorre estendere quest’ultima anche alle attività precedenti il sisma per evitare che meccanismi di concorrenza sleale possano schiacciarle. Soprattutto, sarebbe ora di porre fine a una gestione commissariale che ha dimostrato un totale fallimento, rimettendo ai cittadini e agli enti locali la facoltà di pianificare e di decidere del proprio territorio.