Pubblichiamo ampi stralci di un saggio di Claudio Gnesutta apparso sul n. 1/2015 dei “Quaderni di Rassegna Sindacale”

La riduzione degli orari di lavoro non è un tema molto praticato tra i cultori della politica economica; le riflessioni più importanti ci sono offerte da sociologi (si pensi ai contributi di Beck, 2000 e di Sennett, 2006) e da intellettuali di parte sindacale (Carniti, 2013). Gli economisti che ne parlano sono posti al margine della disciplina per il loro scetticismo nei confronti del modello canonico di sviluppo economico centrato sulla crescita della produzione di mercato.

Eppure, l’“atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni” (Lunghini, 1995) è un tema che dovrebbe appassionare quegli economisti che intendono riformare, e non solo giustificare, l’esistente. Non mi meraviglia pertanto che sia un “attivista sociale e sindacale”, quale è Marco Craviolatti, a proporre, in un libro di grande interesse, “E la borsa e la vita” (Roma, Ediesse, 2014), una riflessione sulla possibilità, come specifica il sottotitolo, che redistribuire e ridurre il tempo di lavoro sia un orizzonte di giustizia e di benessere.

Sebbene la sua tesi abbia un evidente riferimento “all’efficace ma arrugginito slogan ‘lavorare meno lavorare tutti’”, perseguire una “distribuzione equa di un lavoro in diminuzione, ma più efficiente, dignitoso e utile alla collettività” non ha obiettivi puramente difensivi, ma, anzi, attribuisce alla riformulazione dei tempi di lavoro un’incidenza positiva su diverse dimensioni economiche e sociali: strumento per rafforzare il lato dell’offerta sul mercato del lavoro (“più occupazione”); condizione perché il lavoro recuperi i guadagni di produttività andati negli ultimi quarant’anni a beneficio dei profitti e delle rendite (“più giustizia”); stimolo per una maggiore efficienza produttiva dell’impresa (“più ricchezza”); opportunità per migliorare la vita sociale e individuale (“più benessere”).

Non si può affrontare questo tema senza considerare il contesto di riferimento. A questo riguardo si deve tener conto che le previsioni di lunghissimo periodo dell’Ocse (2012) indicano che la crescita della produzione si aggirerà nei prossimi cinquant’anni intorno a un tasso medio del due per cento. Considerata la crescita della produttività del lavoro (necessaria a migliorare la competitività) e la tendenza al contenimento dell’intervento pubblico (pressato dal riassorbimento del debito), si può concludere che la crescita del Pil non garantisce alcuna significativa crescita dell’occupazione – misurata in numero di ore di lavoro – tale da intaccare il livello attuale della sottoccupazione della forza lavoro – misurata in numero di occupati, di posti di lavoro.

Di fronte a una tale prospettiva involutiva, la risposta più ragionevole è quella di intervenire sulle istituzioni che regolano la distribuzione del lavoro e, in particolare, sugli orari contrattuali. Craviolatti ricorda che l’orario legale (le otto ore giornaliere) è una conquista del 1919, un secolo fa, e che la conquista delle quaranta ore settimanali è della fine degli anni sessanta.

Anche se, da allora, gli orari contrattuali sono rimasti stabili, quelli di fatto sono invece aumentati; per sostenere la competitività delle imprese, la materia viene deregolamentata nel 2003 – “in attuazione di due direttive europee” – accentuando la polarizzazione tra chi lavora troppo e chi lavora poco o niente, tanto da generare nel nostro paese una situazione paradossale (Carra, 2013), in cui a una disoccupazione, complessiva e in particolare giovanile, più elevata di quella europea si associa un orario medio degli occupati più lungo di quello europeo.

L’eccesso strutturale dell’offerta sulla domanda di lavoro garantisce un impiego “decente” solo a parte della popolazione, generando una compressione delle condizioni di lavoro, salariali e normative, e conseguente divaricazione dei redditi tra soggetti con differente capacità contrattuale. Di fronte alla perdita di potere contrattuale, sia collettiva che individuale, dei lavoratori e nonostante che “l’esigenza espressa da molti lavoratori sia quella di lavorare di più”, la riduzione generalizzata degli orari contrattuali (e di fatto) è essenziale per riproporzionare, a livello macroeconomico, l’offerta alla domanda di lavoro.

L’esperienza dei “contratti di solidarietà” non va sostenuta solo per “difendere” i posti di lavoro nel caso di ristrutturazioni produttive dell’impresa, ma va estesa anche a situazioni produttive “normali” con il fine di ampliare le opportunità occupazionali. Non si tratta di sviluppare il part-time, ma di definire un orario di lavoro “normale” più ridotto. Non quindi vincoli rigidi e generalizzati all’orario di lavoro, quali le “35 ore”, ma un’articolazione degli orari che permetta di sfruttare tutte le forme di (buona) flessibilità accettabili in una realtà di “lavoro intermittente”.

La redistribuzione del lavoro e la riduzione dell’orario sollevano la questione di quale sia il corrispondente saggio “orario” di salario. Nelle fasi, come l’attuale, di ristagno produttivo è difficile sostenere una politica di riduzione dell’orario a parità di salario; tuttavia non è nemmeno sostenibile una sua costanza, e quindi una riduzione proporzionale del salario settimanale e mensile. Nel primo caso si registra la resistenza delle imprese all’aumento del costo del lavoro, nel secondo quella degli occupati a tempo ridotto ad accettare la decurtazione del loro reddito mensile al di sotto dei precedenti livelli di sussistenza.

Una soluzione potrebbe essere ricercata calibrando il carico fiscale e contributivo sui rapporti di lavoro a seconda della loro durata, alleggerendolo per quelli a orario più ridotto e aggravandolo per quegli di più lunga durata. Sarebbe sufficiente prevedere che il reddito corrispondente a un numero minimo di ore di lavoro sia esente da ogni onere fiscale e contributivo tanto per il lavoratore che per l’impresa, mentre tali oneri sarebbero crescenti al crescere dell’orario individuale.

Il costo del lavoro risulterebbe crescente e il salario orario decrescente al crescere dell’orario; imprese e lavoratori potrebbero contrattare l’orario di lavoro e il corrispondente salario più adeguato per entrambi, dove le imprese, sfruttando il vantaggio fiscale, potrebbero avere interesse a impieghi di durata più contenuta e i lavoratori, accettando un orario ridotto, godrebbero di un maggiore salario orario.

*Già ordinario di Politica economica presso la Sapienza Università di Roma