(L’autore di questo articolo ha scritto per Ediesse – collana fondamenti – il volume “Le risorse umane”, pp. 239, 12 euro. La nozione di risorsa umana è diventata centrale per definire la “forma-impresa” che caratterizza il capitalismo di stampo neoliberale. Di che cosa è sintomo l’inflazione di questa nozione all’interno dei luoghi di lavoro e non solo? In che modo l’“umano” è diventato oggi la “risorsa” principale dell’economia capitalistica? In “Le risorse umane” Massimiliano Nicoli, attraverso una digressione che parte dalla disciplina di fabbrica novecentesca, si sofferma sull’invenzione del management moderno, sostenendo che la “risorsa umana”, lungi dal segnalare l’avvento del lavoro infine umanizzato, è piuttosto il correlato di una tecnologia di potere che si situa all’incrocio fra il governo politico degli individui e l’organizzazione del lavoro. Ciò che sembra una nozione tecnica o neutrale proviene in realtà da un campo di conflitti e di lotte, e rappresenta l’esito attuale di una lunga storia di tentativi di addomesticare quella che Marx chiamava la “mano ribelle del lavoro”.)

L’attributo “umano” è da tempo entrato a far parte del linguaggio aziendale e organizzativo. Se il capitale è divenuto “umano”, l’espressione “risorsa umana” ha sostituito antiche e apparentemente logore parole come “salariato”, “dipendente”, “forza-lavoro”. Una parte significativa della filosofia contemporanea ci ha insegnato a trattare con cautela e sospetto i discorsi che fanno continuo appello all’“uomo”, invitandoci a investigare i loro effetti di potere e le pratiche politiche – spesso grigie e anonime – che li sostengono e li producono.

Che significato ha, allora, questa sorta di umanismo della lingua manageriale – lingua, che, peraltro, permea sempre di più la discorsività politica e quella pubblica in generale? Qual è la posta in gioco di un discorso che afferma la centralità dell’uomo, dell’individuo, della persona, del suo “potenziale” e del suo sviluppo all’interno delle pratiche di organizzazione del lavoro? Se facciamo un “carotaggio” nel terreno del management delle risorse umane, ci imbattiamo in un insieme di pratiche – dalla selezione del personale alla valutazione delle prestazioni – che implicano un complesso articolato di saperi sull’individuo.

Si tratta di saperi di provenienza psico-pedagogica, oltre che sociologica e, talora, filosofica, che si trasformano e si riconfigurano all’interno della cornice della gestione delle risorse umane. Michel Foucault li definirebbe “saperi investiti”, cioè saperi che non sono dell’ordine della conoscenza scientifica propriamente detta, né dell’opinione o della semplice abitudine mentale, ma che si formano, si sviluppano e circolano in forme puntuali e articolate nelle pratiche, in questo caso nelle pratiche di organizzazione del lavoro. Un insieme di saperi che noi potremmo chiamare, in virtù della loro provenienza e del quadro manageriale che li organizza, “saperi umanistici aziendali”. Ma qual è precisamente la storia di questi saperi e di queste pratiche?

Il “fattore umano” fa il suo ingresso ufficiale nei luoghi di lavoro alla fine degli anni venti del Novecento, ma la cura aziendale per l’individuo, le sue forze, le sue facoltà, le sue competenze aveva già cominciato a esercitarsi nell’ambito di quel movimento di razionalizzazione del lavoro che fa capo all’ingegner Taylor. La disciplina di fabbrica scientificamente organizzata da Taylor, e fatta funzionare nella fabbriche fordiste per domare quella che Marx chiamava “la mano ribelle del lavoro”, partecipa all’impresa “biopolitica” – direbbe ancora Foucault – di moralizzazione e di fissazione della forza-lavoro intorno ai luoghi della produzione. Una sorta di “dispositivo di stabilità” connette le tecniche di organizzazione del lavoro alle grandi politiche di governo delle nazioni, producendo, “con una coscienza del fine mai vista nella storia, un nuovo tipo di lavoratore e di uomo” – come scriveva Gramsci in Americanismo e fordismo –, un soggetto-lavoratore e un soggetto-consumatore stabilmente impiantati dentro la macchina fordista di produzione e consumo. Le risorse umane sono qualcosa che si fabbrica.

Lungo i decenni centrali del Novecento, la stabilità dell’organizzazione del lavoro è continuamente minacciata dall’antagonismo operaio, al quale il management risponde con la psicologizzazione della relazione salariale, con il lavoro clinico sulla soggettività, sulla dimensione immateriale del rapporto di lavoro, sulla figura del manager come leader. Si comincia così ad allestire il vero e proprio cantiere delle risorse umane come scena dello sviluppo psicologico dell’individuo e spazio di conciliazione, se non di identificazione, fra impresa e individuo. Eppure, il taylorfordismo continua a essere percorso da una conflittualità immanente: è costretto a sopportare l’antagonismo del lavoro, la resistenza all’erogazione della prestazione, a incorporare il conflitto e il rapporto di forza. Come scrive Marco Revelli, l’alterità operaia rimane il principio occulto del taylorfordismo, e l’atto produttivo resta il risultato e l’esito di una lotta.

Verso la fine degli anni settanta, la necessità di adeguarsi alle trasformazioni politiche ed economiche globali e di contrastare l’intensificarsi della conflittualità del lavoro incontra un nuovo modo di produrre, la “produzione snella” di matrice giapponese, che, sotto le insegne della flessibilità – nuova parola d’ordine che sostituisce “stabilità” –, della produzione “just in time” e “on demand”, risponde adeguatamente ai tentativi di ristrutturazione che le imprese occidentali stavano già sperimentando, al punto da venire tendenzialmente importata e generalizzata in ogni parte del mondo industrializzato: è la nascita del cosiddetto postfordismo.

Si tratta di un modello organizzativo fragile e vulnerabile: basta un rifiuto, un rallentamento, un affievolirsi della tensione per inceppare il flusso produttivo di merci o di servizi; da qui la necessità di generare il massimo di partecipazione, di mobilitazione e di identificazione verso l’azienda. Il dispositivo di controllo e di assoggettamento del lavoro si trasforma in un “dispositivo di flessibilità” che si incardina sugli effetti di potere dei “saperi umanistici aziendali”. Sono gli stessi manuali di gestione delle risorse umane a dirci che la funzione di questi saperi corrisponde a un importante cambiamento nell’ambito delle tecniche di controllo delle prestazioni e dei comportamenti degli individui al lavoro.

Un cambiamento che passa attraverso l’ampliamento della sfera di autonomia e di responsabilità dei lavoratori, attraverso il loro coinvolgimento emotivo, la loro identificazione con l’impresa, il loro “commitment”; un cambiamento che conduce le imprese ad allontanarsi da una logica di controllo diretto a favore di una strategia di controllo indiretto e di promozione dell’auto-controllo da parte degli stessi lavoratori; un cambiamento che la globalizzazione dei mercati, il neoliberalismo politico ed economico e le esigenze di flessibilità organizzativa tipiche del cosiddetto postfordismo impongono alle imprese come condizione minima di sopravvivenza.

La nozione di risorsa umana – insieme al nodo di pratiche e discorsi di cui è il nome – si situa dunque nel punto di intersezione fra processi economici, razionalità di governo politico e modalità di gestione del potere in azienda. L’arte di governo neoliberale divenuta egemone in Occidente, infatti, sollecita ogni individuo a divenire manager di sé e imprenditore del proprio capitale umano. Così, la forma che la risorsa umana assume, in quest’ultima fase del capitalismo postfordista, è la forma stessa dell’impresa; una forma che, con l’aiuto di quella fabbrica diffusa di soggettività che è il management delle risorse umane, ogni individuo è chiamato a reperire all’interno di se stesso come regola di condotta e stile di vita.