Lo scorso 24 agosto, un altro black monday (“lunedì nero”) ha caratterizzato la Borsa di Shanghai, che è precipitata perdendo di colpo l’8,5%, peggior livello dal 2007, trascinando nel crollo immediato tutte le altre borse asiatiche e in poche ore anche tutte le più importanti piazze mondiali. Dal picco del toro borsistico cinese del 12 giugno 2015, oltre la metà del valore totale dei titoli in borsa delle piazze cinesi è andato in fumo (circa 4mila miliardi di dollari); dalla decisione di Pechino di svalutare la moneta nazionale, il Renminbi, intrapresa l’11 agosto scorso alla fine dello stesso mese si è perso il 12% delle azioni della Borsa cinese, il 10% di quelle europee e il 5% della Borsa americana. 

Le prime inevitabili conseguenze sono state l’indebolimento delle valute orientali e l’ulteriore flessione degli indici delle materie prime, a partire dal prezzo del petrolio che ha registrato il livello più basso degli ultimi sei anni. Tuttavia, nell’ultimo anno si era contato un aumento del 150% dei prezzi azionari a Shanghai e la catena di misure correttive prese dalla Peoplès bank of China (5 tagli dei tassi di interesse da novembre 2014, iniezioni di liquidità per circa 250 miliardi di dollari, limiti alle riserve bancarie, “prestiti d’emergenza” a banche e investitori istituzionali; cessione dei titoli di debito sovrano europei e americani) preannunciava l’epilogo della bolla speculativa. La misura più significativa intrapresa dalle autorità cinesi è lo sganciamento strutturale della moneta nazionale dal dollaro americano (nei confronti del quale il Renminbi si è apprezzato del 30% negli ultimi 10 anni), dopo anni di cambio fisso come scelta di politica finanziaria del governo. 

Pur essendo una misura da tempo suggerita anche dal Fmi, tale decisione strutturale ha decretato una nuova linea di politica economica orientata alla svalutazione competitiva e all’aumento del mercato nell’economia nazionale attraverso un tasso di cambio più favorevole e la ricerca di un incremento delle esportazioni. Di fatti, è bastato l’avvio di una svalutazione monetaria del Renminbi di solo 2 punti a scatenare lo scoppio di una nuova crisi finanziaria, che ha contagiato rapidamente tutte le piazze occidentali, in cui un’evidente sopravvalutazione del valore nominale delle azioni rispetto alla reale capacità produttiva e alla domanda effettiva. Negli ultimi anni, infatti, il governo cinese aveva riequilibrato la crescita su una forte domanda nazionale, trainata soprattutto dagli investimenti, che ha indotto le altre principali economie del pianeta a scommettere sulle esportazioni in Cina e nel Sud-est asiatico. 

La conferma dell’inversione di tendenza dell’economia cinese viene riportata dall’ultimo dato sul commercio estero, in cui la tendenza delle esportazioni e delle importazioni ad agosto 2015 rispetto all’anno precedente registra rispettivamente una contrazione del -6% e del -15%. Il progressivo decremento della produzione industriale, alla base del rallentamento del “dragone” cinese ha spinto le istituzioni a cercare un maggiore contributo della domanda estera alla crescita del Pil. Ecco perché istituzioni sovranazionali e investitori internazionali temono che l’indebolimento dell’economia della Cina scatenerà un’altra ondata recessiva e depressiva in tutte le economie avanzate, oltre che una guerra valutaria. Volatilità dei mercati finanziari, basso prezzo del petrolio, maggiore concorrenza internazionale e brusco rallentamento delle economie emergenti minacciano la ricomparsa delle tre erinni della crisi: recessione, disoccupazione e deflazione.

Dagli anni Ottanta in poi, l’aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito (da mercato e personale) nelle economie avanzate, assieme alla degenerazione della finanza privata, ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi (il famigerato 1 per cento più ricco della popolazione), determinando una riduzione della propensione media al consumo e un aumento della massa di risparmi, che hanno alimentato fiammate speculative e bolle (borsistiche, immobiliari) e generato dei vuoti nella domanda effettiva. Negli Usa tale pressione sulla domanda è stata nascosta da un ricorso crescente all’indebitamento e finanziata dagli eccessi di risparmio, prima del 2008, dai paesi europei e, dopo la crisi, dei paesi produttori di materie prime energetiche (soprattutto la Russia) e dei paesi dell’Asia orientale (soprattutto la Cina) che – fino a ieri – hanno trainato le altre economie con le importazioni. In realtà, dunque, la crisi si può descrivere come una distorsione del rapporto fra risparmi e investimenti, che non è stato più ricostruito, perché per farlo serve una riforma strutturale della finanza e un nuovo intervento pubblico in economia, senza i quali non si potrà tornare ad una nuova e sostenibile crescita dell’intera economia mondiale.

Così anche la Cina con la graduale riduzione del ritmo di crescita del Pil (dal 14% di crescita del PIL nel 2007 a meno del 5% delle ultime previsioni istituzionali) e l’annunciato cambio di segno nei saldi della bilancia commerciale con i paesi occidentali smette di compensare i problemi delle economie occidentali. Le stesse contromisure del governo cinese rafforzano “la trappola della liquidità” in cui si agita la speculazione a scapito dell’economia reale. Basti pensare che le grandi imprese cinesi, anche pubbliche, stanno ricomprando le loro stesse azioni.

In Europa, la congenita carenza di domanda derivante dalle diseguaglianze distributive e dai bassi salari, alimentate dalle deregolazioni del mercato del lavoro, dalle privatizzazioni e dalle politiche fiscali restrittive, hanno reso insufficienti gli stimoli provenienti dallo sviluppo cinese, in generale, la spinta delle economie emergenti. Il Vecchio continente risulta ancora l’area commerciale più vasta del mondo, ma l’euro-austerità e la politica di svalutazione competitiva rinunciano al potenziale sviluppo della domanda europea e delineano una politica economica internazionale piuttosto aggressiva. Queste sono le ragioni che infine hanno condotto a una revisione della politica economica cinese e, più esplicitamente, a rispondere ad un’Eurozona diseguale trainata da un “club del nord” e principalmente dalla Germania. Di sicuro, non bastano al resto del mondo i soli segnali di ripresa americana. Anche le ultime azioni intraprese dalla governance economica europea, a partire dal quantitative easing della Bce, ancorché arginino temporaneamente il rischio di deflazione, confermano una politica tutta orientata alla svalutazione competitiva, oltre che del lavoro, anche dell’euro nei confronti soprattutto del dollaro e del Renminbi. Il rallentamento nelle economie emergenti e la debolezza della crescita nelle economie avanzate, in un contesto di crescente volatilità dei mercati finanziari e di riduzione storica dei prezzi delle materie prime, in corrispondenza del deprezzamento delle valute dei paesi emergenti, dipinge uno scenario di mancata ripresa. La crisi non è ancora finita e rischia di non finire mai.

Nonostante, le comunicazioni ottimistiche del governo è sufficiente leggere con attenzione i comunicati Istat per comprendere che lo zero-virgola di crescita (variazione congiunturale dello 0,3% e tendenziale dello 0,7% del Pil del II trimestre 2015) è solo temporaneo e ascrivibile a variabili esogene (come il prezzo del petrolio e il tasso di cambio), mentre il contributo alla variazione del Pil degli investimenti fissi e della spesa pubblica è addirittura negativo (rispettivamente -0,3% e -0,2% rispetto al trimestre precedente). Austerità e riforme strutturali, a partire dal Jobs Act, non funzionano e, anzi, sono deleterie. Come se non bastasse, dai dati Eurostat sulla crescita tendenziale del Pil nei primi due trimestri 2015 emerge che la variazione del Pil italiano (rispettivamente 0,2% e 0,7%) risulta la più bassa tra tutti i 28 paesi europei, ad eccezione della Finlandia.

L’unica strada possibile per risolvere la crisi di domanda e agire sulla qualità dell’offerta, resta un rinnovato intervento pubblico in economia, capace di ridurre le disuguaglianze e creare nuovi mercati attraverso nuovi investimenti e la creazione diretta di buona occupazione, soprattutto giovanile e femminile, in direzione dei beni comuni e dell’innovazione sociale, settori non sottoposti alla logica di mercato e in grado di moltiplicare reddito e lavoro. La Cgil resta convinta che la proposta di Piano del Lavoro risponda a tali istanze definendo nuovi lineamenti di politica economica, anche per l’Europa.

* segretario confederale Cgil
** coordinatore Area politiche di sviluppo Cgil