I consumi delle famiglie italiane nel 2015 sono calati del 2,9% rispetto a 10 anni fa, addirittura del 6,3% – 157 euro mensili – rispetto al 2008, mentre il 29% dei nostri connazionali dichiara consumi inferiori alle sue necessità reali. Non solo. Per far fronte alle difficoltà della crisi sono profondamente cambiate le modalità di acquisto: dal cercare il miglior prezzo rispetto alla qualità al fare scorte quando il prodotto è in offerta, dall’acquistare prodotti di minore qualità nei discount o a prezzi scontati negli outlet al comprare articoli usati. È quanto emerge dal rapporto 2015 “I consumi delle famiglie italiane”, realizzato dalla Filcams Cgil in collaborazione con la Fondazione di Vittorio e l’istituto Tecnè.

Il testo del rapporto (pdf)

La crisi, dunque, ha profondamente modificato le abitudini e i consumi (solo un terzo delle famiglie non ha cambiato gli standard di consumo e poco più del 5% lo ha migliorato). “Cambiamenti – osserva Maria Grazia Gabrielli, segretario generale della Filcams – che possono considerarsi ormai come strutturali e che, allo stesso tempo, non debbono essere più sottovalutati. Il problema è che la diminuzione dei consumi e la contrazione delle entrate ha portato molte aziende del settore a individuare nella diminuzione del costo del lavoro la principale soluzione per arginare gli effetti della crisi, scaricando il problema solo sui dipendenti”. 

Una mano, nella ricerca di nuove strategie di acquisto, giunge alle famiglie da Internet: il 30% dei consumatori naviga per cercare il miglior prezzo di vendita dei prodotti alimentari e il 63% si affida alla rete per quelli non alimentari. “È tempo che tutta la rete della distribuzione – argomenta ancora la segretaria generale della Filcams nazionale – intraprenda una riflessione per avviare un rinnovamento organizzativo che coinvolga tutti gli stakeholder del sistema, soprattutto per individuare nuove politiche di intervento”. 

Un altro dato interessante che emerge dal rapporto (basato su un campione assai elevato di intervistati: circa 4mila persone) è che, se si tornasse agli standard economici e di vita pre-crisi, ben il 29% degli italiani dichiara che non modificherebbe comunque i livelli e le modalità di spese attuali. Un elemento di rilievo interessante: troppo spesso, a giudizio degli autori della ricerca, non tenuto nella giusta considerazione da chi sostiene che, finita la crisi, tutto tornerebbe come prima.

Per quanto riguarda infine gli orari dei punti vendita, emerge sempre dal rapporto che gli italiani prediligono quello continuato (55%), ma non le 24 ore di apertura (solo il 15%); mentre si dividono tra quanti vorrebbero l’apertura dell’esercizio 6 giorni su 7 (47%) e quanti 7 giorni su 7 (45%). La quasi totalità degli intervistati (93%) ritiene che, in ogni caso, i diritti dei lavoratori debbano essere garantiti. “Liberalizzazioni degli orari e delle aperture commerciali, assenza di un contratto nazionale di riferimento – spiega la numero uno della Filcams – non hanno aiutato la ripresa dei consumi, ma hanno impattato negativamente sulle condizioni di lavoro”.

A maggior ragione a fronte di uno scenario come quello descritto dal rapporto, “la contrattazione – conclude Gabrielli – resta un momento di confronto importante che non deve essere svilito. Il contratto nazionale deve rimanere il quadro di riferimento normativo, una rete da costruire, anche per dare delle risposte sul fronte dei consumi, valorizzando e riqualificando il lavoro”.