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Lo schema di decreto legislativo trasmesso dal governo alle Camere il 24 dicembre scorso, ormai prossimo alla definitiva approvazione, configura un modello di contratto a tutele crescenti molto diverso da quello che poteva trapelare dalle prime discussioni sul Jobs Act e dalla stessa ridondante previsione anticipatoria introdotta contestualmente alla liberalizzazione dei contratti a termine con l’art. 1, comma 1, della legge n. 78 del 2014. È bene infatti ricordare che nell’originario disegno di legge delega del governo (As n. 1428) la lettera b) dell’art. 4 si limitava a prevedere, nel contesto della redazione di un testo organico semplificato di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, l’eventuale possibilità di introdurre ulteriori tipologie, “espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”.
Il testo finale della delega approvata con la legge n. 183 del 2014 è però, sul punto, molto diverso: l’art. 1, comma 7, lettera c) autorizza infatti senz’altro la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
Tra il testo inziale e quello approvato in via definitiva dal Parlamento si è consumata quella “commedia degli inganni” – come ha osservato con amara ironia Luigi Mariucci – che appunto ha consentito al governo di restituirci, oggi, un contratto a tutele crescenti totalmente trasfigurato nella sua funzione e nella sua natura. Che non è più, evidentemente, quella di una nuova tipologia contrattuale volta a promuovere l’inserimento stabile nel mercato del lavoro attraverso una temporanea attenuazione della tutela contro i licenziamenti in una prima fase (per quanto lunga) del rapporto, salva comunque l’applicazione della ordinaria tutela ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori al termine di essa, secondo uno schema in qualche modo riconducibile all’idea di contratto unico proposta tra i primi in Italia da Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Ma che diviene, per contro, nient’altro che il comune contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ex art. 2094 cod. civ., che verrà tuttavia a caratterizzarsi – per tutti (e soltanto) i nuovi assunti (da datori di lavoro privati) a partire dalla data di entrata in vigore del decreto attuativo – per la permanente riduzione del livello delle garanzie contro i licenziamenti illegittimi.
Un contratto che, più in particolare, si caratterizzerà per la radicale regressione nella intensità dei rimedi apprestati contro il licenziamento ingiustificato, concretizzantesi non solo (e vorrei dire non tanto) nella riduzione ad ambiti del tutto eccezionali della reintegrazione nel posto di lavoro, ma soprattutto nella complessiva contrazione della misura delle indennità risarcitorie, che in certi casi saranno davvero irrisorie. Questa è dunque – sapientemente dissimulata dietro una formula ingannevole e falsificatoria – la natura del cosiddetto “contratto a tutele crescenti”: una nuova e fortemente regressiva disciplina dei licenziamenti, applicabile solo ai nuovi assunti e che soltanto per costoro comporterà, in pratica, la sostanziale cancellazione della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo (visto che la tutela ripristinatorio-reintegratoria e quella risarcitoria, già attenuata, prevista in tal caso dal testo in vigore dell’art. 18 dello Statuto modificato dalla legge Fornero, diventerà come tale applicabile solo ai “vecchi” assunti).
Lo schema di decreto attuativo traduce questa opzione della legge delega con disposizioni che non è possibile, e forse nemmeno utile, commentare nel dettaglio in questa sede. Ed è anche quasi superfluo soffermarsi sulla ispirazione di politica del diritto che guida queste scelte, essendo sufficiente rilevare che essa traduce in una delle forme più meccaniche – e vorrei dire più rozze (basti pensare all’offerta di conciliazione mediante consegna al lavoratore licenziato d’un assegno circolare allo scopo di evitare l’impugnazione) – la mitologia neoliberista secondo la quale solo la drastica riduzione dei diritti degli insiders potrà spalancare il mercato del lavoro italiano alle masse degli esclusi. Come tutti i miti fondativi, anche questo è indifferente alle smentite della realtà (anche se le stesse valutazioni del governo finiscono per tradire la consapevolezza che quella che sarà generata dal prevedibile successo del contratto a tutele crescenti, fortemente incentivato dallo sgravio contributivo previsto dalla legge di stabilità, sarà in gran parte occupazione sostitutiva e non aggiuntiva rispetto a quella che comunque si sarebbe prodotta in sua assenza).
Sembra piuttosto più utile contribuire alla discussione – già accesasi tra i primi commentatori (e ben presente in particolare nel dibattito in seno alla Cgil) – sui profili di costituzionalità di questa disciplina. Semplificando molto il discorso, direi che il contratto a tutele crescenti genera due campi di tensione con i principi costituzionali: uno di portata generale, che potrebbe mettere in discussione la tenuta complessiva del disegno del Jobs Act, ma che, proprio per questo, implicando una lettura particolarmente esigente e “sostanzialistica” della Costituzione, difficilmente riuscirà ad aprire varchi nella linea di prudentissima deferenza alle scelte del legislatore ordinario da tempo consolidatasi nella giurisprudenza costituzionale; l’altro, invece, limitato ad aspetti specifici ma nondimeno molto significativi della controriforma dei licenziamenti.
Sul primo versante, a venire in rilievo – con una forza del tutto sconosciuta in passato – è anzitutto una scelta di radicale rottura del principio di uguaglianza e di solidarietà nei luoghi di lavoro, evidentemente attuata dal legislatore con la divaricazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo a seconda che si tratti di “vecchi” oppure di “nuovi” assunti. La data di assunzione andrà a determinare – a parità di tutte le altre condizioni – una decisiva differenziazione dello statuto protettivo dei lavoratori subordinati con implicazioni profonde sull’intero svolgimento del rapporto di lavoro. Solo una idea “piccola” di uguaglianza, per riprendere liberamente il titolo del recentissimo libro di Michele Ainis, ovvero un’idea di uguaglianza neutralizzata e svuotata da una formalistica e rinunciataria deferenza verso la discrezionalità illimitata delle scelte politiche del legislatore, potrebbe a mio avviso giustificare una scelta di questo tipo, una tale regressione ad un particolarismo giuridico neofeudale, dove la frantumazione degli statuti protettivi del lavoro subordinato avviene seguendo linee del tutto estrinseche rispetto alla natura della prestazione dedotta nel contratto (come, appunto, la data dell’assunzione).
Ed è da ricondurre sempre a questo primo campo di tensione generale (e sostanziale) con i princìpi costituzionali la scelta spregiudicata di una brutale monetizzazione “al ribasso” delle conseguenze del licenziamento illegittimo, dove l’unico interesse realmente protetto dall’ordinamento finisce per essere quello del datore di lavoro alla certezza di costi contenuti e predeterminabili ex ante, mettendo fuori gioco una volta per tutte la discrezionalità valutativa del giudice. Da tale punto di vista, la tensione con i principi costituzionali non sta tanto (o soltanto) nel sostanziale abbandono della tutela reintegratoria, che non è costituzionalmente necessitata, ancorché in una importante pronuncia a Sezioni Unite la Corte di Cassazione abbia avvertito che “il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma” (così la sentenza n. 141 del 2006).
L’offesa a quei princìpi costituzionali è piuttosto recata da una tutela che, anche ove possa legittimamente esaurirsi tutta dentro una logica puramente monetaria, deve comunque mantenere un’effettiva valenza sanzionatoria e dissuasiva nei confronti del recesso datoriale illegittimo; laddove l’indennità risarcitoria prevista dallo schema di decreto sul contratto a tutele crescenti non soddisfa – almeno per i lavoratori con minore anzianità – un tale requisito minimo di effettività.
Ma la disciplina in via di definitiva approvazione da parte del governo solleva anche questioni più specifiche di compatibilità con i princìpi costituzionali, che proprio in quanto più circoscritte e tecnicamente delimitate, non investendo il disegno normativo del contratto a tutele crescenti in quanto tale, potrebbero più facilmente aprirsi un varco in un eventuale giudizio di legittimità costituzionale. Anche qui mi limito a segnalare in modo schematico quelle che mi sembrano maggiormente evidenti e fondate.
Pone ad esempio un’evidente questione di eccesso di delega la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 1 dello schema di decreto, laddove estende la nuova disciplina dei licenziamenti ai dipendenti già in forza nelle piccole imprese che superino, mediante assunzioni con contratti a tutele crescenti, la soglia occupazionale prevista per l’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto. La legge delega è, infatti, come visto molto chiara almeno nel limitare l’applicabilità della nuova disciplina dei licenziamenti, in cui si risolve la previsione del contratto a tutele crescenti, soltanto ai nuovi assunti.
Sotto altro profilo, la rottura del principio di uguaglianza/ragionevolezza – che come detto rappresenta la vera cifra dell’impianto regressivo del decreto legislativo – si articola poi in specifiche violazioni della logica di funzionamento dell’art. 3 Cost. Mi limito a richiamare le due più eclatanti. La prima: in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, è eccezionalmente prevista la reintegrazione nel posto di lavoro con relativo risarcimento del danno quando sia direttamente dimostrata in giudizio la insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, senza però che sia consentita al giudice qualsivoglia valutazione circa la sproporzione del licenziamento (art. 3, comma 2), anche alla luce delle previsioni della contrattazione collettiva. Questa è una evidente aberrazione, vietata dall’art. 3 Cost., in quanto nell’escludere (con l’estromissione del controllo di proporzionalità) qualunque valutazione in ordine alla gravità dell’inadempimento contrattuale imputabile al lavoratore, la norma impone al giudice di trattare allo stesso modo situazioni che possono essere sostanzialmente diverse, limitando l’accertamento ai fini della concessione della reintegrazione al nudo fatto materiale.
La seconda: estendendo la nuova disciplina sull’indennità risarcitoria anche ai licenziamenti collettivi (come astrattamente autorizzato a fare dalla norma di delega), il legislatore delegato permette tuttavia che – a fronte dei medesimi vizi procedurali o sostanziali di uno stesso licenziamento per riduzione di personale, che coinvolga contemporaneamente vecchi e nuovi assunti – solo i primi possano avvalersi delle tutela processuale e sostanziale garantita dall’art. 18 dello Statuto come riformato dalla legge Fornero, relegando i secondi alla ridotta tutela indennitaria consentita in generale dal contratto a tutele crescenti. Una dimostrazione plastica e assai concreta della regressione anti-egalitaria e neofeudale che si cela dietro l’allure postmoderna del Jobs Act.
* Docente di Diritto del lavoro, Università di Perugia