Gli sguardi della gente erano ancora fissi sulle macerie del terremoto del 23 novembre del 1980. Le grida di dolore non si erano placate: non c’era sofferenza più grande che guardare inermi lo spuntare del giorno e il calare della notte; o piangere per strada perché non c’era più una stanza dove piangere. La malavita non perse tempo a ottenere i lavori per la ricostruzione, mentre i finanziamenti per l’industrializzazione presero altre strade. Una di queste portava ad Avellino. Elio Graziano, il proprietario di Isochimica, ottenne un appalto dalle Ferrovie dello Stato per la bonifica di circa tremila carrozze che tra la parete esterna e quella interna avevano un palmo di mano d’amianto. Era la più grande bonifica da amianto che l’Europa abbia mai conosciuto. I lavori di scoibentazione iniziarono nell’autunno del 1982 sui binari della stazione di Avellino.

– Ma che stanno facendo su quei binari? E quella polvere? Che colore strano…
– C’è di mezzo Graziano, ha avuto un appalto dalle ferrovie per mettere a posto le carrozze, i capannoni della fabbrica non sono ancora pronti.
– Ma come! Ha vinto l’appalto e non ha ancora la fabbrica? Certo che è una potenza quest’uomo…


Questo è lo stralcio di un ipotetico dialogo che si sarebbe potuto ascoltare in quei giorni. Così nacque l’Isochimica: su un binario morto della stazione. La dannosità dell’amianto era ancora latente, ma già ben chiara allo Stato che consigliava cinicamente di assumere ultracinquantenni per quel tipo di attività e impedire che le malattie correlate potessero manifestarsi prima del periodo di incubazione di trenta-quarantacinque anni. Ma Graziano scelse mani giovani, forti e vigorose; sapeva che le commesse sarebbero state rilevanti e che avrebbe dovuto sottoporre gli operai a ritmi sostenuti. I 350 operai dell’Isochimica erano ragazzi alla prima esperienza lavorativa, avevano un’età media di ventidue anni, alcuni erano ancora minorenni.

Iniziarono a lavorare all’interno delle carrozze, tra le lamiere, inventandosi gli attrezzi che servivano per scorticare l’amianto. Con la “stecca” cominciavano a grattare e poi con la spazzola d’acciaio operavano nei punti più complicati. Nessuna protezione, un fazzoletto sul naso, una mascherina di carta: “La coca cola fa più male dell’amianto”, li rassicurava Graziano, mentre i tecnici delle Ferrovie dello Stato si limitavano a controllare che la scoibentazione non lasciasse residui di amianto. Si lavorava dentro una nuvola blu, milioni di fibre di crocidolite, l’asbesto più pericoloso per l’uomo, e spesso, per fare in fretta, si mangiava all’interno delle stesse carrozze. Ognuno di quei ragazzi all’inizio dell’attività è stato immerso dentro quella nebbia micidiale, ha respirato e mangiato migliaia di fibre di amianto. Tutti ricordano il primo giorno di lavoro come un incubo, erano andati col vestito buono per il colloquio e dopo qualche minuto erano dentro le carrozze impolverate a scoibentare. Qualche anno dopo, in seguito all’intervento dei medici dell’Istituto del lavoro dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, le protezioni migliorarono, ma, come sostengono i lavoratori, “là dentro neanche se indossavi uno scafandro te la cavavi”. Fu così che l’otto settembre 1988 il sindaco di Avellino emise l’ordinanza di sospensione dell’attività industriale e il tredici dicembre il pretore di Firenze, Beniamino Deidda, ordinò la chiusura definitiva dell’Isochimica. Ma Graziano non si arrese e continuò a scoibentare carrozze fino al 1990 con una quindicina di operai fidati, negli stessi capannoni, cambiando semplicemente la denominazione dell’azienda.

Una storia tremenda, come d’altronde lo sono tutte le storie d’amianto, che oggi, a distanza di trent’anni, torna a galla e obbliga i lavoratori a fare i conti col mesotelioma da asbesto, un male che attende con pazienza le sue vittime. Una sola fibra d’amianto depositata nei polmoni dopo una incubazione di circa trent’anni può causare il mesotelioma. Nei polmoni degli operai dell’Isochimica ce ne sono migliaia e il risultato di un’indagine a campione effettuata dai medici della provincia di Salerno confermano che il 100 per cento dei soggetti esaminati è contaminato dall’amianto. Ottanta analisi condotte da Mario Polverino, direttore del Polo pneumologico dell’ospedale “M. Scarlato” di Scafati, non lasciano dubbi sull’entità della tragedia: ognuno dei lavoratori è in pericolo di vita. Essi stessi si definiscono “i morti che camminano” e hanno scelto come indirizzo di posta elettronica amianti.morti.viventi@gmail.com. Oggi gli ex lavoratori Isochimica hanno un’età media di cinquantaquattro anni, in poco più di 200 si sono costituiti in comitato, quindici sono già morti. Gli altri, o non si riesce a contattarli o hanno deciso di non volerne sapere e si sono affidati alla sorte.

Il comitato sta conducendo una battaglia su più fronti. Il primo riguarda la possibilità dei prepensionamenti perché, come dice Nicola, “c’è una grande contraddizione: non posso andare in pensione perché non ho i contributi, ma non posso neanche lavorare perché mi chiedono un certificato di sana e robusta costituzione, e con le placche pleuriche non sono né sano né robusto... che devo fare? Mi devo mettere una fune al collo? Ma pure quelli che lavorano non se la passano meglio; ti pare bello che un mio compagno sta nei cantieri edili, sui ponteggi, col freddo, mentre ha una malattia che gli ‘dice’ che deve stare a casa al caldo”?

Il secondo fronte è legato all’avvio del processo. Nel giugno del 2013 la procura di Avellino ha sequestrato l’ex stabilimento; la bonifica trascinatasi per più di vent’anni si è rivelata poco più che una farsa e circa tremila tonnellate di amianto sono ancora nella struttura produttiva. I reati ipotizzati dai magistrati vanno dal disastro ambientale alla cooperazione colposa in disastro ambientale. L’inchiesta dovrebbe essere in dirittura d’arrivo. Ci sono ventiquattro indagati, in testa Graziano e il management dell’azienda, un’intera giunta di Avellino, funzionari comunali, Asl e Arpac. L’attività di indagine prosegue anche in ordine ai reati di cui agli artt. 589 e 590 del codice penale relativi ai decessi di vari dipendenti e alle lesioni in danno di altri lavoratori, nonché al reato ex art. 347 che riguarda la “rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro”. È chiaro che in questo filone i lavoratori potranno accampare il diritto a ottenere un risarcimento per il danno biologico e morale, potendo dimostrare senza sforzo alcuno la casualità tra la presenza di fibre di amianto nel loro corpo e lo scorretto trattamento di scoibentazione. La Cgil Campania ha deciso di costituirsi parte civile al processo.

Ma non è finita. C’è anche la bonifica del sito, che rappresenta una bomba a orologeria per il popoloso quartiere di Borgo Ferrovia. In vent’anni non si è riusciti nemmeno a stabilire il numero preciso dei cubi di calcestruzzo e amianto stoccati nel piazzale. Graziano non si è dannato l’anima più di tanto; l’amianto in parte l’ha sotterrato intorno alla fabbrica, in parte l’ha compresso nei cubi di cemento, altro ancora lo ha smaltito dio solo sa dove. Si sa con certezza che le procure di Avellino, Salerno, Nocera Inferiore e Nola con una maxi inchiesta sono impegnate a far luce su tutto ciò: una vera e propria caccia all’amianto dell’Isochimica.

(Anselmo Botte, sindacalista della Cgil di Salerno, ha appena pubblicato per Ediesse Il racconto giusto. Storie di amianto e di operai all'Isochimica di Avellino, p. 112, 8 euro)