Le politiche per l’università hanno di recente ricevuto una certa attenzione da parte del governo, come testimoniano alcuni interventi previsti dalla legge di stabilità (l’aumento dei fondi per le borse di studio; il piano straordinario “ordinari”; il reclutamento di nuovi ricercatori; le “cattedre Natta”), gli annunci del nuovo Piano nazionale della ricerca e dello Human Technopole. Analizziamo questi iniziative in dettaglio, prima di svolgere qualche considerazione d’insieme.

La legge di stabilità, all’articolo 1 comma 254, prevede un aumento del fondo per le borse di studio di 54.750.000 euro per il 2016 e di 4.750.000 euro a decorrere dal 2017 (con un importante aumento, frutto dei lavori parlamentari, rispetto alla proposta governativa iniziale di 5 milioni per il 2016); al comma 206 prevede lo stanziamento di 6 milioni (2016) e 10 milioni (2017) per un piano straordinario per la chiamata di professori di prima fascia; al comma 247, 47 milioni (2016) e 50 milioni (dal 2017) per il reclutamento di 861 nuovi ricercatori (Rtd-B). Si tratta di misure che vanno nella giusta direzione, e cercano di sanare alcune rilevanti conseguenze negative del fortissimo definanziamento dell’università degli ultimi sette anni.

Si può tuttavia discutere dell’intensità di queste misure. L’Italia ha 141mila borsisti (2012-13) contro i 300mila della Spagna, i 440mila della Germania e i 630mila della Francia; inoltre, nel Mezzogiorno, la situazione è pessima: la quota di beneficiari di borse di studio è più bassa della media nazionale, pur essendo il reddito delle famiglie inferiore. Per valutare quanto siano rilevanti i 50 milioni (peraltro stanziati per un solo anno per l’intero paese), si può ricordare che sarebbero necessari 127 milioni ogni anno solo per erogare le borse a quegli studenti del Mezzogiorno che, pur avendo i requisiti, non le ricevono per carenza di fondi.

Ragionamenti simili si possono fare sulle chiamate di prima fascia. A fine novembre 2015 risultavano “chiamati” in ruolo da ordinario pochissimi abilitati alla prima fascia della docenza, il 3,3% nel Mezzogiorno, l’1,8% al Centro e il 4,3% al Nord (a fronte del 40% degli abilitati alla seconda fascia già “chiamati”, ma con percentuali molto maggiori al Nord rispetto al Centro-Sud). Lo stesso vale per i ricercatori. Per quanto il Programma nazionale di riforma (allegato al Def) sottolinei che lo stanziamento porterà il numero di Rtd-B “dagli attuali 700 a più di 1.500”, una ricostruzione dell’Unione degli universitari permette di verificare che esso comporterà un incremento di circa l’1,8% del personale docente (che si è invece ridotto di circa un quinto a partire dal 2008) e un recupero dell’11% circa della riduzione di personale avvenuta a partire dal 2010.

Sarebbe stato possibile stanziare più risorse? Per rispondere occorrerebbe riferirsi alle complessive politiche di spesa e tassazione. Ma un riferimento più puntuale è possibile: con la stessa legge di stabilità per il cosiddetto “bonus cultura” sono stati stanziati 290 milioni per il 2016 a favore dei circa 570mila italiani che compiono 18 anni, inclusi quelli provenienti dalle famiglie più agiate. Una semplice riconsiderazione di questa misura, o quanto meno una sua rimodulazione in senso meno regressivo, avrebbe potuto liberare risorse significative.

Assai diverso è il caso delle cosiddette “cattedre Natta” (38 milioni per il 2016 e 75 dal 2017), che introducono un’assoluta novità: una procedura di reclutamento parallela e straordinaria. È atteso a breve il provvedimento attuativo, che si preannuncia di grande rilevanza e consentirà valutazioni più complete. Tuttavia sono già emerse significative preoccupazioni, che attengono a questioni di fondo, tra cui – come paventa Giliberto Capano –  “il rafforzamento di alcune sedi universitarie come prodotto di scelte personali”. È bene ricordare che i docenti così reclutati potranno, dopo una prima fase, muoversi liberamente fra le sedi: è ragionevole pensare che l’assoluta maggioranza preferirà operare nei contesti più dotati – da ogni punto di vista – di risorse.

Senza dimenticare che dal Programma nazionale di riforma sta per essere varato il Piano nazionale di ricerca 2015-2020: ciò consiglia di rinviare più estesi commenti alla lettura del testo. Tuttavia, viene chiarito che esso dispone dei 2,5 miliardi cui faceva riferimento con grande enfasi il presidente del Consiglio nel suo intervento pubblicato su La Repubblica del 26 marzo scorso. Si precisa che essi “provengono per 1,9 miliardi dai fondi che finanziano la ricerca (compresa la linea finanziaria Pon)”, quindi da risorse già disponibili; e “per 500 milioni dal Fondo sviluppo e coesione” (Fsc): questi ultimi sono verosimilmente le “risorse aggiuntive” cui faceva riferimento Renzi.

Lo stanziamento complessivo del Fondo sviluppo e coesione è però già avvenuto nel 2012: quindi si tratta, più precisamente, della programmazione attuativa di risorse già disponibili. Va ricordato che la “linea finanziaria Pon” ammonta a 1.286 milioni, ma è destinata esclusivamente al Mezzogiorno (e che, per legge, i 500 milioni Fsc vanno allocati per l’80% al Sud). Ipotizzando allocazioni rispettose della legge (e un riparto nella misura di due terzi al Centro-Nord e un terzo al Mezzogiorno delle risorse senza destinazione territoriale vincolata), si può stimare che il Pnr è basato per l’intero Centro-Nord solo su circa 400 milioni di risorse già disponibili e su 100 milioni di risorse Fsc per un triennio.

Va infine ricordata la decisione del presidente del Consiglio di stanziare 1,5 miliardi in dieci anni a favore dell’Istituto italiano di tecnologia, per la realizzazione del cosiddetto Human Technopole sull’area ex Expo a Milano. Sul piano quantitativo, tale cifra va comparata con la disponibilità di meno di 100 milioni in un triennio per la ricerca nelle università (Prin): disponibilità che dovrebbe permettere di finanziare all’incirca il 2% di tutti i progetti presentati. Sul piano procedurale e di merito, sorprende e dispiace la decisione di allocare discrezionalmente tali risorse a una singola istituzione, che provvederà, a sua volta su base discrezionale, alla selezione dei ricercatori (è circolata la cifra di mille) e dei gruppi di ricerca da coinvolgere nel progetto.

Alcuni commenti d’insieme. In linea generale sembra emergere da parte della presidenza del Consiglio (da cui proviene la grande maggioranza delle scelte) un’impostazione volta a concentrare attenzione e risorse su interventi di carattere straordinario e parallelo rispetto al funzionamento ordinario del sistema dell’università. Da questo punto di vista sarà fondamentale il modo in cui si darà attuazione alla norma sulle cosiddette “cattedre Natta”. Il disinteresse per le procedure ordinarie sembra presente anche in quello che può essere considerato l’ultimo capitolo (per ora) della vera e propria “saga” dei criteri e degli indicatori utilizzati per allocare le risorse fra i diversi atenei. Nel decreto che stabilisce la ripartizione dei nuovi ricercatori, una parte di essi (20%) è destinata in numero fisso (due) per ogni ateneo. Si viene così a configurare un nuovo, bizzarro, criterio di “merito”: la (piccola) dimensione.

Non solo. È molto importante segnalare che le misure del governo continuano a favorire una biforcazione su base territoriale del sistema universitario italiano, a parità di risorse, esse favoriscono nettamente le università collocate “al cuore del Nord”, a danno di quelle della periferia del Nord e del Centro-Sud. Ne è prova la decisione sullo Human Technopole, che avrà un fortissimo effetto attrattivo di ricercatori verso l’area milanese. Rischia di produrre un effetto altrettanto forte la decisione relativa alle “cattedre Natta”: apprendiamo da dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario Nannicini al Sole-24 Ore (2 aprile) che “è certo che una certa aggregazione lì dove c’è più eccellenza ci sarà”; aggregazione che potrà con il tempo rafforzarsi, in base alle libere scelte dei vincitori.

La dimensione territoriale delle politiche dell’università e della ricerca dovrebbe attentamente bilanciare i vantaggi dell’agglomerazione e della concentrazione delle attività nelle aree più forti con i vantaggi di un rafforzamento complessivo del sistema. Ciò non avviene; nonostante non ci sia evidenza che un sistema più concentrato ha, specie nel lungo periodo, effetti positivi sullo sviluppo del Paese. Il timore è, invece, che la Presidenza del Consiglio voglia seguire, come indirizzo generale, una politica estremamente selettiva sul piano territoriale, con conseguenze rilevanti e cumulative per le aree escluse (principalmente il Centro-Sud) e, in particolare, per i gruppi di ricerca di maggiore qualità al loro interno, che – lungi dall’essere “premiati” e valorizzati – rischiano, con il tempo, di deperire.

Gianfranco Viesti è professore di Economia applicata all’Università di Bari