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A dieci anni dalla sua morte, l’uso pubblico e la polemica politica sulla figura di Bettino Craxi lacerano come non mai quella parte d’Italia che s’interroga sul proprio passato, e rischiano di scrivere un nuovo capitolo nel voluminoso libro della storia e della memoria non condivise degli italiani.
Il lato politico (l’uso pubblico) della disputa è sotto agli occhi di tutti: lo “scontro toponomastico” su Craxi, la commemorazione al Senato e le proteste in piazza, il tentativo – in certi settori e nei media della maggioranza – di riscrivere la stagione dei processi e così la storia di questo paese. Il tentativo – soprattutto – di istituire un’analogia tra il “Craxi martire dei giudici” negli anni ’90 e il Berlusconi parimenti “perseguitato” di oggi (si veda, al riguardo, l’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto), declinato nell’ipotesi inverosimile di un complotto di lunga durata ordito da settori della magistratura nell’arco di quasi un ventennio. Strumentalizzazioni simili danno l’idea di una ricostruzione non serena, centrata esclusivamente sugli ultimi anni del segretario socialista, sulla fase di Mani Pulite e sulla latitanza, sul periodo meno difendibile e allo stesso tempo più indifeso della vita di Craxi. Molti di coloro che hanno parlato su (o scritto di) Craxi in questi giorni avevano un ruolo politico all’epoca e lo hanno tutt’oggi. Al loro riguardo è ragionevole sospettare la strumentalità (di nuovo: l’uso del passato), l’ansia di autolegittimazione, la riscrittura della storia per ragioni di contingenza politica che saranno anch’esse, un giorno, consegnate alla storia. E’ un dibattito - questo dibattito strumentale e politico - molto utile per capire l’Italia berlusconizzata in cui viviamo, quanto il ceto dirigente di questo paese sia ancora impelagato in una transizione interminabile e quanto alcuni esponenti di primo piano del centrodestra (grosso modo quelli che vengono dall’esperienza del Psi) abbiano bisogno di trincerarsi dietro figure del passato. È un dibattito che racconta una classe politica ancora ferita dal terremoto di Mani Pulite, che non si è saputa ricostruire o si è ricostruita male.
Il lato riflessivo – se non addirittura storiografico – della disputa su Bettino Craxi è invece più utile per la comprensione di una stagione della storia italiana. Alcuni contributi pubblicati sui media, cartacei e online, firmati da storici o da editorialisti che la storia la masticano, aiutano a capire Craxi e il craxismo. Dalle pagine del Corriere della Sera Sergio Romano (Il ritratto di un leader) illustra l’ascesa di Craxi nel Psi dopo le elezioni del ’76, stravinte da Dc e Pci. Romano si sofferma sulle ragioni della campagna anticomunista che segnò tutta la vita di Craxi e sul tentativo di correggere l’”anomalia” dell’Italia, unico paese europeo dove il socialismo non riusciva ad andare al potere. Per Romano, Craxi fu un “modernizzatore” nella politica interna ed economica (si vedano il Concordato, la lotta all’inflazione e l’abolizione della scala mobile), un “europeista” convinto e anche capace di tenere testa agli Stati Uniti nelle crisi di Sigonella e dei missili Cruise. Ma “lo stile craxiano del potere – ricorda Romano - produsse anche conseguenze che non è possibile ignorare o sottovalutare. La prima fu il brusco aumento del debito pubblico, una colpa a cui i governi successivi non vollero o non poterono rimediare. La seconda fu Tangentopoli, vale a dire un sistema di finanziamenti illeciti che inquinò la vita politica nazionale ed ebbe effetti perversi sul bilancio dello Stato. Sono i meriti di Craxi, paradossalmente, che rendono queste colpe particolarmente gravi.”
Dalle pagine di Repubblica (Il segno di Craxi sugli anni Ottanta), lo storico Guido Crainz ricorda “l’ispirazione riformista e antitotalitaria” del primo Craxi (1976-1980), il “rilancio socialista sul terreno delle idee: dalla riscoperta di Proudhon alla felice stagione della rivista di partito, Mondo Operaio”. Ma aggiunge che quella stagione “terminò presto”, sfociando nel decennio del Pentapartito, “asse e prigione istituzionale degli anni Ottanta”, irreggimentato nel patto di ferro anti-Pci stretto con la Democrazia cristiana. Negli anni del governo Craxi (1983-87), sul piano economico, secondo Crainz, se fu “sicuramente necessario il taglio della scala mobile” sugli stipendi dei lavoratori dipendenti, mancò all’appello il “rigore fiscale nei confronti del lavoro autonomo e dei ‘ceti emergenti’”. Inoltre – prosegue l’analisi di Crainz – “il debito pubblico crebbe a dismisura” passando, dal 1979 al 1988, “dal 57% del prodotto interno lordo al 93%, aumentando ulteriormente negli anni immediatamente successivi”. Più in generale, Crainz non vede “segni di modernizzazione” nel decennio craxiano, “a partire da quella ‘grande riforma’ (delle istituzioni, ndr.) che rimase involucro vuoto”.
Nicola Tranfaglia sull’Unità (Perchè è inopportuno riabilitare Craxi) ricorda invece come Craxi fosse “un uomo politico che veniva dalla sinistra”, che però “arrivato al potere concentrò una gran parte della sua polemica contro il partito comunista italiano e appoggiò (questo è indubbio) l’ascesa televisiva di Silvio Berlusconi e della sua Fininvest”. Craxi, secondo Tranfaglia, “si dedicò, piuttosto, a propiziare con metodi spregiudicati, e a volte chiaramente illegali, la crescita del Partito socialista, sperando in questo modo di farlo diventare non soltanto l’ago della bilancia ma anche il partito di riferimento degli italiani. Ma in questo compito fallì per la forza delle tradizioni cattolica e comunista nel nostro paese dopo il fascismo e per la debolezza del suo partito, a livello soprattutto dei quadri intermedi”. Prosegue l’analisi: “I governi del leader socialista, sul piano della difesa della legalità, della lotta alle mafie e alla pubblica corruzione, si rivelarono assai carenti”. Mentre “sul piano politico e culturale la polemica, anche condivisibile, contro i ritardi e le contraddizioni del comunismo italiano come di quello internazionale, non si accompagnò all’indicazione di una prospettiva socialdemocratica a livello internazionale tale da accrescere i consensi intorno al partito socialista”.
Anche Eugenio Scalfari, dalle pagine di Repubblica (Il gesto che Bettino non fece), accetta il confronto e dipinge gli “elementi positivi” della politica estera craxiana (l’apertura al mondo arabo, la piattaforma per il Mediterraneo ecc.) pur sottolineandone la continuità con le politiche dei governi precedenti. Scalfari minimizza, invece, gli elementi di rinnovamento del Concordato e ricorda inoltre che “l'azione di Craxi per realizzare l'unità della sinistra italiana nel quadro d'una democrazia compiuta non fu particolarmente efficace”, portandolo anzi a “schierarsi con la parte più conservatrice della Dc”. Per quanto riguarda Tangentopoli e la fine del craxismo, Scalfari sottolinea che Craxi “non fu semplicemente il fruitore passivo del sistema di corruttela ma ne fu un attivo organizzatore con una differenza rispetto agli altri partiti di governo: il leader del Psi non si limitò a fruire delle ‘dazioni’ ma intervenne sulle singole imprese e sulle singole loro operazioni tassandole o facendole escludere dalle gare”.
L’89 e l’anticomunismo
Nel documentario di Luca Josi trasmesso da La7 (“Benedetto Craxi”), è lo stesso Craxi a rievocare le origini del suo radicale anticomunismo, nato durante i viaggi nei paesi dell’Europa Orientale, dove i socialisti e socialdemocratici venivano emarginati o eliminati dalle dittature comuniste. Nella stessa trasmissione che ha mandato in onda il documentario (l’Infedele del 18 gennaio) Michele Serra ha però notato che l’anticomunismo craxiano non convinse milioni di italiani che votavano Pci, e continuarono a farlo, non perché fossero stalinisti ma semplicemente “perché erano di sinistra”, e che anzi proprio a causa dell’aggressività craxiana si radicarono nel voto comunista. Dopo la caduta del Muro, nel 1989, Craxi non colse l’occasione storica di riunificare le sinistre (l’ha rilevato Claudio Martelli, intervistato da Gianni Minoli per La storia siamo noi), insistendo in un anticomunismo che non aveva più ragione d’essere. Craxi “nell’89 – spiega Giorgio Ruffolo all’Unità - poteva spezzare il blocco della democrazia e favorire l’alternanza”. Ma non seppe e non volle farlo.
Nell’ottobre del 1999, pochi mesi prima della morte, un giornalista della Berliner Zeitung andò a trovare Craxi ad Hammamet e ne ricavò una delle ultime interviste (se non l’ultima) concesse dall’ex premier socialista (qui se ne può leggere il testo integrale tradotto in italiano). Dialogando col suo interlocutore tedesco, Craxi domandò: “Perché l’Spd perde tanto? Perché il Pds sale? La sua spiegazione è semplice: perché Schroeder ha smesso di essere un socialdemocratico. ‘Una socialdemocrazia che non avesse il culto dello Stato di diritto sarebbe una socialdemocrazia mutilata’”. Gli anni seguenti avrebbero dimostrato che Craxi non sbagliava sul conto di Schroeder: il governo del Cancelliere tedesco ha mostrato assai poco di socialista. Ma lo stesso rimprovero si può rivolgere al socialismo craxiano. All’Italia da bere degli anni Ottanta.
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