Alla quarta Legge di bilancio di questo esecutivo, il capitolo previdenziale segna un punto di caduta senza precedenti. Una manovra che cresce complessivamente dello zero virgola e che, sulle pensioni, riesce persino a peggiorare un impianto già fortemente penalizzante per lavoratrici e lavoratori.

Il testo approvato dal Parlamento conferma una scelta chiara: andare in pensione più tardi e con assegni più bassi. Non solo non viene bloccato l’adeguamento dei requisiti pensionistici all’attesa di vita, ma si procede nella direzione opposta, smentendo le promesse fatte negli ultimi anni e rendendo strutturale un meccanismo che scarica i suoi effetti sui più fragili, a partire da giovani e donne.

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Fine lavoro mai

Dopo mesi di annunci su un presunto stop alla stretta pensionistica, dal 1° gennaio 2027 scatterà invece un primo aumento dei requisiti: + 1 mese per la pensione anticipata e per la pensione di vecchiaia. Dal 2028 l’incremento sarà ancora più pesante, pari a + 3 mesi, portando la pensione anticipata a 43 anni e 1 mese e quella di vecchiaia a 67 anni e 3 mesi, uno dei requisiti più alti in Europa.

E la dinamica non si fermerà lì. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, già nel 2029 sono previsti ulteriori 2 mesi di aumento, altri 2 mesi nel 2031, e così via negli anni successivi. Un automatismo che renderà sempre più difficile l’accesso alla pensione e che produrrà un doppio effetto negativo: ritardo nell’uscita dal lavoro e riduzione dell’importo degli assegni, a causa del continuo abbassamento dei coefficienti di trasformazione.

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Cancellate Quota 103 e Opzione donna

“Siamo di fronte a un impianto previdenziale che viene ulteriormente irrigidito, senza alcuna misura di equità o flessibilità”, sottolinea Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil nazionale.

“Dopo aver promesso il superamento della legge Monti-Fornero – spiega – questa quarta Legge di Bilancio azzera anche le poche forme di flessibilità rimaste. Vengono cancellate Quota 103, già fortemente depotenziata con il calcolo contributivo, e Opzione donna, che era stata progressivamente ridimensionata con l’innalzamento dell’età e la drastica riduzione della platea. Misure che, pur con tutti i loro limiti, avevano consentito una possibilità di uscita anticipata: solo nel 2022, prima di questo governo, oltre 26.500 donne avevano potuto accedervi. Oggi resta solo la Fornero, per di più peggiorata”.

“I lavori non sono tutti uguali: non è uno slogan, è una realtà. Non si può avere un sistema previdenziale identico per tutti quando le condizioni di lavoro sono profondamente diverse”, prosegue Cigna. “Ogni aumento dei requisiti si traduce automaticamente in pensioni più basse. Già nel 2025 il taglio dei coefficienti ha comportato, su un reddito di 30 mila euro, una perdita stimata di circa 5 mila euro sull’intera durata della pensione. Con il nuovo aggiornamento previsto nel 2027 la perdita crescerà di ulteriori 7.500 euro, a parità di retribuzione”.

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L’aumento dei requisiti legato all’attesa di vita

La Legge di bilancio 2026 conferma il meccanismo automatico di adeguamento alla speranza di vita. Dopo una sterilizzazione solo parziale nel 2027, dal 2028 il sistema tornerà pienamente operativo. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, rispetto al 2026 l’aumento complessivo dei requisiti contributivi per la pensione anticipata arriverà fino a +11 mesi dal 2037, rendendo questo traguardo sempre più lontano e richiedendo oltre 43 anni di contribuzione.

L’Italia resta così l’unico Paese europeo a mantenere un automatismo di questo tipo, che penalizza due volte: sull’accesso alla pensione e sull’importo della prestazione. A questo si aggiunge un ulteriore elemento di disuguaglianza: i requisiti basati sugli importi soglia – per coloro che hanno contribuzione dopo il primo gennaio 1996 – che favoriscono chi ha salari più alti e penalizzano chi ha lavorato più a lungo con retribuzioni basse.

Nessun confronto, solo tagli

A rendere ancora più grave il quadro è il metodo. Scelte di questa portata vengono assunte senza un confronto reale con le parti sociali, spesso riscritte attraverso emendamenti dell’ultima ora. L’ultimo confronto formale tra governo e sindacati sul tema previdenziale risale al 18 settembre 2023. Nel frattempo, non arrivano risposte sui tagli già subiti dai dipendenti pubblici, né interventi a favore di giovani e donne. L’obiettivo appare evidente: allungare la permanenza al lavoro e ridurre la spesa previdenziale, senza considerare le conseguenze sociali.

A questo si aggiungono nuovi tagli ai fondi destinati alla pensione anticipata dei lavoratori precoci e degli addetti alle lavorazioni usuranti, con effetti concentrati soprattutto a partire dal 2033. Per i lavoratori precoci la riduzione delle risorse sarà pari a 50 milioni di euro nel 2033 e 100 milioni di euro a partire dal 2034; per i lavori usuranti è invece prevista una decurtazione strutturale di 40 milioni di euro l’anno. Una scelta che colpisce chi ha iniziato a lavorare prima e in condizioni più faticose, spesso in contesti in cui i livelli di sicurezza sono più bassi e il rischio di infortuni, anche mortali, resta elevato.

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Cgil: “Peggiorate le condizioni di accesso alla pensione”

“Il governo prova a intestarsi come cambiamento quella che è, nei fatti, solo una retromarcia tattica su singole misure”, afferma Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil. “Non viene modificato in alcun modo l’impianto complessivo di una manovra che continua a peggiorare le condizioni di accesso alla pensione”.

Nel maxi emendamento presentato in Senato è stata eliminata la parte che prevedeva il ridimensionamento dei periodi di riscatto e l’allungamento delle finestre per le pensioni anticipate. Un balletto senza precedenti, che non cambia però il quadro di scelte profondamente sbagliate e che conferma l’assenza di una vera riforma previdenziale.

“Lo stralcio del riscatto della laurea ai fini dell’accesso al pensionamento anticipato, ottenuto anche grazie alla nostra denuncia – prosegue Ghiglione – non modifica la sostanza: non c’è alcuna riforma, ma solo una stretta che continua a scaricare il peso della sostenibilità sulle spalle di chi lavora e paga tasse e contributi”.

A questo si aggiunge un quadro di confusione e instabilità normativa gravissimo. Con la riscrittura del maxi emendamento, si cancella una norma, peraltro sbandierata per un anno dagli stessi esponenti dell’esecutivo, che permetteva di sommare la previdenza complementare alla pensione pubblica per raggiungere le soglie di accesso. Una norma che, comunque, non risolveva il nodo centrale, perché l’importo soglia resta un limite irraggiungibile per almeno il 70% di chi oggi lavora, soprattutto giovani, donne e lavoratori con carriere discontinue.

Il messaggio che arriva è devastante: nessuna certezza, nessuna affidabilità, nessuna visione di lungo periodo.“Per questo – conclude – non ci fermeremo. La vertenza sulle pensioni proseguirà, così come la mobilitazione che abbiamo già messo in campo, a partire dallo sciopero del 12 dicembre. Serve cambiare rotta subito: senza una vera riforma previdenziale equa e solidale, che garantisca una pensione dignitosa a tutte e tutti, il futuro sarà fatto di pensioni sempre più lontane e sempre più basse”.

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