“Guardare al futuro, la politica contro l’inerzia della crisi”. Con questo libro (edito da Castelvecchi) Giuseppe Amari riprende il suo viaggio, in compagnia questa volta di Maria Paola Del Rossi, tra i materiali del “riformismo”, tornando in qualche modo alle origini di quella cultura. Al centro di questo nuovo volume troviamo il libro Guardare al futuro, pubblicato per la prima volta nel 1933, in cui F. D. Roosevelt spiega le ragioni che stanno a monte delle politiche d’intervento e le strategie perseguite.

Un libro che (come dimostra la tempestiva traduzione in Italia, seppure in una versione tendenziosa, tesa cioè ad assimilare strumentalmente quell’esperimento al sistema corporativo fascista) suscitò immediatamente un largo interesse. Un interesse giustificato peraltro dal fatto che in quelle pagine è possibile cogliere in pratica tutti gli elementi di novità del New Deal.

Nel volume, accanto al libro, sono raccolti un insieme di documenti, come le lettere di Keynes al presidente americano, e di saggi, in primo luogo di Federico Caffè, che ci aiutano a capire i tratti distintivi di quell’esperienza. Un’esperienza assolutamente straordinaria in cui la politica non solo ha preceduto la cultura economica, ma si è dimostrata capace di elaborare un radicale cambiamento  rispetto ai decenni precedenti sia del ruolo dell’economia che dei valori di riferimento e degli obiettivi che devono essere perseguiti.

Amari e Del Rossi, con questo volume, ci vogliono indurre prima a ritrovare e poi a riflettere sulle ragioni che hanno spinto Roosevelt alla definizione delle politiche che sono andate sotto il nome di New Deal. Ragioni importanti che negli ultimi decenni sembrano essere state dimenticate. Ma vogliono anche ricordarci come quelle esperienze, consolidandosi nel tempo, si siano andate trasformando in qualcosa di più: in una visione complessiva del modo di organizzarsi della convivenza civile. Come il New Deal, in altre parole, abbia suggerito una nuova utopia, per usare un termine caro a Bruno de Finetti. Un’utopia che ha preso forma grazie al diffondersi in alcune università americane del pensiero keynesiano; una diffusione alla quale non è probabilmente estraneo il bisogno di formare una classe dirigente capace di interpretare e portare avanti le nuove strategie di intervento.

Unutopia che, implicitamente, i curatori vogliono ricordare prima ancora che riproporre, e che, proprio in quanto tale, non può in nessun caso essere confusa con le tecniche attraverso le quali si tentò di realizzarla. Che Amari e Del Rossi vogliono ricordare anche per indurci a riflettere sul fatto che le distanze che esistono tra le politiche di intervento intraprese in quegli anni e i programmi politici e di politica economica portati avanti oggi da quasi tutti i governi, in particolare europei, non possono essere in nessun modo viste come risposte tecniche differenti – legate a un’evoluzione della teoria – ai problemi che si pongono. Sono invece espressione di utopie diverse e tra loro inconciliabili.

Gli elementi costitutivi del New Deal
Gli interventi raccolti nel volume mettono in evidenza come  la visione di Roosevelt faccia perno su due punti forti. Una diagnosi estremamente chiara delle cause della crisi di quegli anni, emersa peraltro già durante la sua campagna elettorale e una politica d’intervento pragmatica e dichiaratamente sperimentale. Per quel che riguarda il primo aspetto, secondo Roosevelt (e il gruppo di eccellenti consiglieri di cui si era circondato, Moley, Tugwell, Berle e O’ Connor), il problema centrale della realtà economicosociale americana dei primi anni trenta era quello dell’eccessiva concentrazione del potere economico.

Una concentrazione, non bilanciata da alcuna responsabilità, che si era andata creando nel Paese e che metteva in discussione da un lato i fondamenti del sogno americano e il suo modo di organizzarsi in società e, dall’altro, il buon funzionamento del sistema economico. Che era stata storicamente accettata nella fase di formazione dell’apparato produttivo degli Usa, ma non lo poteva essere più nel momento in cui il concentrarsi del potere economico – “il nuovo despota del XX secolo”, come lo chiamava – aveva dato luogo a una tendenza alla riduzione nei livello di reddito dei gruppi sociali più deboli, e al conseguente determinarsi di una situazione di insufficienza della domanda interna.

Lobiettivo fondamentale della politica di intervento diventava, dunque, quello di ridistribuire il potere e il reddito all’interno della società. Per raggiungerlo, Roosevelt attuò una politica molto pragmatica, che è andata in due direzioni: quella di rafforzare (o creare) istituzioni che avevano il compito di proteggere le componenti più deboli della società; e quella di ridistribuire direttamente reddito e potere attraverso altre istituzioni. Una politica che, nel suo insieme, mirava a sostituire al disordine distributivo che la crisi aveva accentuato, una redistribuzione consapevole e che individuava nello Stato e nel governo federale il suo attore principale. Sia perché veniva visto come l’unico possibile portatore dei valori “costituzionali”, sia perché soggetto dotato del potere necessario per realizzare una redistribuzione che non poteva non incontrare resistenze nelle componenti forti della società.

Resistenze che, secondo Roosevelt e i suoi consiglieri (in particolare Turgwell), potevano essere attenuate dal fatto che le imprese potevano essere interessate all’esistenza di centri di coordinamento pubblici e al ruolo programmatore di ultima istanza dello Stato. Me che in realtà furono molto forti. Gli imprenditori, in particolare, mostrarono tutta la loro ostilità a queste politiche, cercando di ostacolarle in tutti i modi, impedendo la politica di deficit spending, facendo pressioni sulla Corte suprema, ma anche attraverso una sorta di sciopero degli investimenti. Un atteggiamento che durò per tutti gli anni trenta e che costrinse Roosevelt a rinunciare a molti dei suoi consiglieri.

Il retroterra culturale di Roosvelt
Le posizioni di Roosevelt non nascevano dal nulla. Si radicavano in un retroterra culturale che la politica aveva peraltro elaborato, arricchendolo. Anche in quegli anni la crisi finanziaria stava mettendo a nudo l’insensatezza di un modello di sviluppo centrato sulla finanza e dunque si avvertiva come e più di oggi un problema di trovare risposte a quanto stava accadendo. Più di oggi, perché il contesto storico e culturale era diverso e più favorevole dell’attuale a un cambiamento di prospettiva come quello introdotto dal New Deal per due aspetti importanti. In primo luogo perché nessuno poteva ignorare la sfida che veniva dall’esperienza del comunismo al modello economico e sociale americano. Una sfida che, rileggendo gli scritti del tempo, era particolarmente sentita dagli intellettuali che circondavano il presidente e che avevano elaborato il suo programma politico.

E in secondo luogo perché a questa sfida si poteva dare una risposta forte a partire da un profondo cambiamento della cultura che si era avviato nei decenni precedenti e che coinvolgeva i fondamenti epistemologici del processo scientifico. La visione deterministica del mondo all’interno della quale si era andato consolidando il paradigma economico – sia marxista che del mercato – era stata messa in discussione dalla svolta di metodo che si era sviluppata all’interno della fisica. Il mondo si presentava nuovamente troppo complesso per poter essere “ridotto” a poche leggi che ne costituivano la struttura essenziale.

La ricerca scientifica non era indirizzata più a scoprire le leggi presenti nel caos apparente. Era un modo molto più semplicemente attraverso il quale lo studioso provava a costruire schemi di analisi (temporanei e parziali) capaci di aiutarlo a comprendere la complessità della realtà che studiava. La distanza tra lo studioso che guardava la realtà e i “fatti” era di nuovo aumentata. Lo stesso atteggiamento pragmatico di Roosevelt può essere visto come espressione di questo nuovo atteggiamento culturale. Una cultura che con una certa lentezza viene scoperta dagli studiosi di economia, che solo con Keynes sembrano prendere pienamente coscienza dei problemi posti dal nuovo paradigma scientifico.

Dal punto di vista della politica economica, la discontinuità rispetto al passato che questo cambiamento di prospettiva politica prima e scientifica dopo ha determinato è stata potenzialmente enorme. In primo luogo perché l’economia, ponendo al centro la soggettività dello studioso, tornava a essere scienza costruita intorno agli obiettivi dello studioso stesso; tornava a essere scienza dei mezzi e dei fini e non solo dei mezzi. In secondo luogo, perché i vincoli economici non potevano che apparire meno stringenti, rifiutando quello che Federico Caffè chiamava il “pitagorismo economico”. Se la volontà di cambiamento non era condizionata dall’esistenza di leggi economiche assimilabili a quelle naturali, se in altre parole il modo di funzionare di un sistema economico era semplicemente espressione di scelte fatte in passato dagli uomini, era del tutto ragionevole immaginare che potessero esistere altre scelte capaci di indirizzare la costruzione della convivenza civile nelle direzioni volute.

Un compromesso accettabile e stabile
Quello di Roosevelt può essere visto come il primo passo nella direzione del superamento di un capitalismo paternalistico (fatto di pace sociale e autoritarismo) verso un capitalismo del confronto e della negoziazione. Nel momento in cui si abbandona l’idea dell’esistenza di leggi economiche assimilabili a quelle naturali, sarà infatti sempre possibile riuscire a trovare un compromesso accettabile e stabile nel tempo, tra le regole dell’economia, o per essere più espliciti tra le spinte che vengono dal modo di funzionare dei mercati e quelle collegate al buon funzionamento di una democrazia. Un compromesso che tuttavia sarà possibile solo se si esplicita la questione del potere; cioè se si parte dalla piena coscienza del fatto che la tendenza alla concentrazione del potere è una componente strutturale che accompagna lo sviluppo di un’economia di mercato che può mettere in crisi il buon funzionamento di una democrazia e delle sue istituzioni.

Gli elementi che identificano il riformismo a ben vedere sono due. Il ruolo dei valori di una democrazia come punti di riferimento delle scelte economiche e l’importanza attribuita alla questione del potere. Il convergere di questi due elementi ha portato il “riformismo”, in piena continuità con le posizioni di Roosevelt, a identificare lo Stato come il soggetto cruciale del suo progetto di convivenza civile, di “civiltà possibile”. Lo Stato infatti può rappresentare un’idea di interesse generale diversa e più complessa di quella proposta più o meno implicitamente dal mercato e dispone degli strumenti per intervenire con successo sulla distribuzione del potere all’interno della società, perché lui stesso dotato di potere.

Ne consegue che la politica istituzionale diventa il vero cuore del riformismo. È solo attraverso la creazione di istituzioni con compiti di mediazione e riequilibrio che si possono riaffermare i valori che una società vuol prendere a riferimento, e si può, contemporaneamente, mantenere nella società una distribuzione diffusa del potere. Ed è attraverso le istituzioni pubbliche che si possono supportare le componenti deboli di una società, e si può impedire che gli interessi delle componenti forti alterino gli equilibri a loro favore; che si può evitare infine che il crearsi di posizioni di potere dia vita a processi cumulativi pericolosi dal punto di vista del funzionamento della democrazia, ma anche della stessa crescita di lungo periodo.

Il riformismo, lungi dallessere un insieme di tecniche, non è altro che un orizzonte culturale e politico con il quale si recupera e si porta fino in fondo il progetto del New Deal, si immagina un nuovo tipo di democrazia industriale, con nuovi equilibri sociali; e con un nuovo blocco sociale di governo (costituito da Partito democratico, Stato, sindacati) sufficientemente forte da potersi contrapporre al big business. Con il “riformismo” si va oltre la risposta alla crisi; si passa per una rivisitazione della democrazia industriale, indispensabile per risolvere il problema di fondo che si poneva sul piano economico: quello della cattiva distribuzione del potere prima ancora di quella del reddito.

Il modello attuale di crescita come contro-riformismo
Il “riformismo” riporta dunque la questione del potere al centro dell’attenzione. E lo fa in maniera esplicita per un motivo relativamente intuitivo. Quello che si proponeva era un programma di redistribuzione del potere dalle aree forti a quelle deboli della società. Cioè qualcosa di socialmente accettabile, e politicamente spendibile. Con il cambiamento delle regole internazionali degli anni ottanta il quadro cambia sia dal punto di vista del funzionamento del sistema che da quello della cultura. Il fatto che il mercato torni a essere l’istituzione di riferimento vuole essere un implicito abbandono della stessa idea di compromesso tra le ragioni dell’economia e quelle della democrazia.

Il libro, curato da Amari e Del Rossi, ci ricorda che la riscoperta del ruolo centrale del mercato in qualche modo ci riporta alla stagione precedente a quella del riformismo. Nella nuova stagione che si comincia a delineare negli anni ottanta, la redistribuzione di potere e di reddito che il mercato genera o può generare, non può semplicemente essere più giudicata negativamente dagli studiosi di economia. Nel riformismoera il mercato che doveva essere giudicato con i parametri della democrazia. Ora avviene esattamente il contrario. È il mercato che legge attraverso i suoi valori, lefficienza sostanzialmente, loperare dello Stato. E lo vede, necessariamente, come un soggetto incapace di essere efficiente.

Il fatto di porsi dal punto di vista del mercato rende del tutto inutile ogni idea di aggiustamento nei rapporti di forza. La questione del potere scompare dall’orizzonte della riflessione, perché ci si ferma prima di affrontarla. Ci si ferma alle considerazioni in termini di efficienza, che hanno anche un vantaggio non indifferente sul piano culturale. Sono molto più accettabili dal punto di vista sociale e politico di un programma di redistribuzione del potere dai gruppi sociali più deboli ai più forti. Una conclusione che spiega le ragione dell’apparire e dello scomparire dal dibattito della questione del potere. Se l’efficienza determina una qualche redistribuzione di potere e di reddito nella società è cosa sostanzialmente irrilevante. Non a caso l’obiettivo della nuova cultura economica è quello della crescita del reddito, senza alcuna qualificazione rispetto alla qualità  del prodotto che lo genera e come questo reddito si distribuisce.

Il libro di Amari e Del Rossi, per concludere, ci dice che un altro mondo è possibile, ma proprio nel momento in cui fa questo, ci ricorda che quanto sta succedendo negli ultimi decenni costituisce una riprova che i poteri forti, appena possibile, tendono a ricreare le condizioni per poter esercitare il proprio potere, tendono a riproporre il proprio blocco sociale alla guida del sistema economico, invadendo anche lo Stato e le sue istituzioni e anche quelle sociali. Ma contemporaneamente testimonia dell’incapacità di questi stessi poteri di pensare nel lungo periodo sia in termini di equilibri sociali, sia negli stessi termini dello sviluppo. Non a caso, Paolo Leon, un economista caro a chi scrive e anche a Giuseppe Amari, li ha definiti poteri “ignoranti”. E con molte ragioni.

Roberto Schiattarella, già ordinario di Economia politica all’Università di Camerino.