Ora che il Jobs Act è in dirittura di arrivo, ci rendiamo conto quanto poco si sia dibattuto di tutto quello che esso contiene di diverso dall’articolo 18. Si tratta di questioni quasi sempre cruciali per i risultati che il mercato del lavoro può produrre in termini di equità, di valorizzazione del lavoro, di occupazione e, più in generale, per la complessiva configurazione del modello di economia e di società verso il quale stiamo tendendo. Tra tutte le questioni (dalla revisione della cassa integrazione all’introduzione di un salario minimo; dalla ridefinizione della governance della politiche attive e passive dal lavoro alla previsione del demansionamento e alle misure per conciliazione tra tempi di vita e di lavoro), in questo breve spazio mi soffermerò sui sussidi di disoccupazione.

La principale innovazione, a questo riguardo, contenuta nel disegno di legge delega, dopo le revisioni della commissione Lavoro del Senato, è l’estensione dei sussidi di disoccupazione ai Co.co.co. È noto che i requisiti fissati dalla legge Fornero per accedere all’Aspi – anche nella sua versione ridotta – non consentono a questi lavoratori, come ad altri lavoratori “atipici”, di godere di tale protezione. La sua prevista estensione sembra, quindi, costituire un passo in avanti sulla strada dell’equità e può realizzare un principio spesso affermato dal presidente del Consiglio: dare tutele a chi non le ha. L’introduzione di questa misura solleva, però, molti quesiti, dalla risposta ai quali dipende il giudizio complessivo sulla sua equità, oltre che su altre rilevanti questioni.

Il primo quesito riguarda l’ammontare di risorse disponibili per far fronte a questa nuova spesa. La platea di potenziali beneficiari, secondo stime attendibili, supera il milione di persone. Assumendo che il sussidio sia di 700 euro lorde al mese e tenendo conto che si prevedono circa 1,5 miliardi di risorse addizionali, si giunge alla conclusione che potranno essere coperti dal sussidio un po’ più di 150.000 Co.co.co., circa il 15 per cento dei potenziali beneficiari. Se la disoccupazione, com’è probabile, eccedesse questa percentuale, si porrebbe il problema di trovare le risorse per rendere effettivo il passo avanti verso l’equità scritto nel disegno di legge delega. Questa probabile carenza di risorse fa nascere un dubbio – ma, davvero, soltanto di dubbio si tratta. E cioè che si ceda alla tentazione di recuperare risorse riducendo i già contenuti tempi di fruizione del sussidio, che attualmente sono al massimo di 18 mesi.

Nel Jobs Act si legge che la durata del sussidio deve essere rapportata alla “pregressa storia contributiva del lavoratore”. Naturalmente, nulla si può dire di certo finché il governo non avrà dato corso alla delega, ma sembra di essere di fronte a una porta che potrà essere aperta in caso di necessità e che potrà condurre in un luogo nel quale i Co.co.co, e gli altri lavoratori ai quali la disoccupazione precoce ha impedito di avere una “storia contributiva” sufficientemente lunga, riceveranno i sussidi per un tempo brevissimo.

In realtà, ci si può chiedere se sia equo collegare la durata di fruizione del sussidio alla storia contributiva. Ma, tralasciando questo punto, dobbiamo chiederci cosa accade a chi perde il diritto al sussidio. La ben nota assenza, nel nostro paese, di una misura di carattere universale di protezione dalla povertà, dà immediata risposta a quella domanda: accade che non riceverà più nulla dallo Stato. In verità, nel Jobs Act, si legge che per i disoccupati che hanno esaurito il diritto al sussidio e che risultano poveri in base all’Isee, può essere prevista “una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa”, ma “con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti”. Troppo poco, anche qui, per giudicare, ma è forte il timore che possa trattarsi di prestazioni molto contenute, oltre che limitate nel tempo e, inoltre, discriminanti rispetto a chi è povero, ma non perché ha perso il lavoro.

Va anche ricordato che dal 2017 cesserà l’indennità di mobilità, come previsto dalla legge Fornero. Quell’indennità, che riguarda un numero ridotto di disoccupati, si caratterizza perché può essere percepita a lungo, fino a 36 mesi. In alcuni casi, il ri-avviamento al lavoro sulla base di un valido progetto industriale può richiedere tempi non brevi, quasi certamente più lunghi di quelli che si profilano per la durata dei sussidi di disoccupazione. Il venire meno dell’indennità di mobilità rischia di contribuire in negativo al saldo sul terreno dell’equità.

Rilevanti sono anche le condizioni alle quali il Jobs Act intende subordinare la concessione dei sussidi o, meglio, la possibilità di continuare a percepirli. Nel testo si parla di “meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario… al fine di favorirne l’attività a beneficio delle comunità locali, tenuto conto della finalità di incentivare la ricerca attiva di una nuova occupazione da parte del medesimo soggetto”. Il principio affermato è quello tipico del welfare to work, ma a suscitare preoccupazione è quel riferimento alle “attività a beneficio delle comunità locali”. Il timore è che, dato anche lo stato delle amministrazioni locali, tra quelle attività possa rientrare tutto o quasi tutto.

La domanda di fondo è però questa: perché attività benefiche per le comunità locali non devono essere configurate come lavoro piuttosto che come condizione per ricevere un sussidio di disoccupazione? Perché i rappresentanti politici delle comunità locali, se sono in grado di produrre progetti significativi per migliorare il benessere delle loro popolazioni, non devono poter trattare come lavoratori chi quei progetti dovrebbe realizzare?

Il punto finale riguarda una questione più generale, e cioè la possibilità che le misure contenute nel Jobs Act e le altre politiche del governo mitighino il peso che graverà sugli ammortizzatori sociali, favorendo l’occupazione e, più precisamente, un’occupazione che consenta salari “decenti”. Questa possibilità appare decisamente esile. La convinzione del governo, stando alle più ricorrenti dichiarazioni, sembra essere che l’occupazione riprenderà se si darà maggiore libertà di manovra a chi gestisce le imprese e questo avverrà anche grazie ad alcuni provvedimenti contenuti nel Jobs Act.

Al di là delle diverse convinzioni sul tema che ciascuno può nutrire, una questione dovrebbe essere forse posta all’attenzione del governo. È sensato o no assumere che se la redditività dell’impresa può essere sostenuta agendo sul lavoro e sul suo costo si sarà meno pressati nella ricerca di nuove soluzioni produttive e organizzative che a lungo andare sono decisive per lo sviluppo dell’impresa e per la sua capacità di creare occupazione? E, ancora, i margini di manovra di cui oggi godono le imprese nei confronti del lavoro non sono già tali da rendere molto probabile che questa distorsione sia presente e consistente? La disciplina molto spesso aguzza l’ingegno e obbliga a impegnarsi in azioni e attività che appaiono un po’ penose e che quindi preferiremmo evitare. Questo non vale anche per imprenditori e manager?

* Professore di Politica economica alla Sapienza Università di Roma