Se da un lato la Turchia laica di Kemal Ataturk e dei giovani turchi sembra aver lasciato il posto a un Islam solo apparentemente moderato, segnando così una rottura storica nelle vicende di quel paese, l’autoritarismo fascisteggiante che aveva caratterizzato quell’esperienza politica è tutt’altro che scomparso e si configura al contrario come un tratto che accomuna la Turchia di ieri a quella di oggi.

La repressione contro ogni forma di dissenso e contro ogni tentativo di salvaguardare alcune forme di laicità sopravvissute fa il paio con l’intolleranza nei riguardi delle organizzazioni sindacali, il cui agire è stato fortemente limitato dai precedenti regimi laici e continua a conoscere ostacoli da parte dell’esecutivo presieduto da Erdogan.

Un percorso, quello in cui si è sviluppato il movimento sindacale della Turchia, da sempre particolarmente travagliato, nonostante il paese venga considerato un ponte tra l’Europa e l’Asia e, proprio in virtù di questa sua peculiare collocazione geografica, sia per tradizione più vicino al Vecchio Continente che all’Oriente per quanto riguarda le organizzazioni dei lavoratori.

I sindacati turchi, come da noi, nacquero alla fine dell’Ottocento, esattamente nel 1890, dopo le prime lotte dei lavoratori che hanno caratterizzato il decennio 1870-1880. Dal 1908 il movimento sindacale turco conosceva un’impennata che scatenò inevitabilmente, in particolare nel 1925, una pesante repressione. Nel 1936, sulla base del modello francese, veniva promulgato il primo Codice del lavoro, il quale tuttavia non riconosceva il diritto di associazione, né quello di contrattazione collettiva. Un quadro che due anni più tardi veniva peggiorato con l’introduzione, sul modello delle leggi fasciste italiane, del divieto di dar vita a qualsiasi “organizzazione di classe”.

Questa norma, in un contesto fatto di continui passi avanti e indietro, venne eliminata nel 1946. Malgrado la prima legge sindacale del 1947 non riconoscesse il diritto di contrattazione collettiva, né quello di sciopero, all’inizio degli anni cinquanta le numerose organizzazioni sindacali, ben 246 nel 1952, cominciarono a organizzarsi, ponendo le basi, il 18 febbraio di quell’anno, per la nascita del principale sindacato del paese, la Türkiye Isci Sendikalan Konfederasyonu.

La Türk-İş venne ufficialmente fondata il successivo 31 luglio grazie all’impegno dei sindacati delle principali città turche e in particolare dei lavoratori dei trasporti, dei settori alberghieri, della ristorazione e del tessile. Estranea alla logica dei partiti, la Türk-İş contava nel 1954 oltre 120.000 tesserati. Malgrado il colpo di stato militare del 1960, tre anni dopo le leggi sindacali riconobbero il diritto di sciopero e di contrattazione collettiva.

Questo nuovo scenario, sempre caratterizzato da una libertà sindacale limitata, portò da un lato a un aumento degli iscritti, che arrivarono a toccare quota un milione nel 1971 fino agli oltre due milioni e 200.000 che fanno di questa organizzazione la più grande del paese e, dall’altro, alla nascita, nel 1967, di una nuova organizzazione sindacale, la Devrimci Isci Sendikalan Konfederasyonu (Disk), nata da una scissione della Türk-İş, che, per semplificazione, potremmo definire di sinistra.

Terzo sindacato della Turchia, il Disk – con oltre 420.000 iscritti – fin da subito non limitò le sue azioni alle questioni contrattuali, ponendo anche con forza l’accento su un necessario cambiamento di carattere sociale. Nel 1976, quattro anni prima del colpo di stato militare, nasceva un terzo sindacato, la Turkiye Hak Isci Sendikalan Konfederasyonu (Hak- İş), che conta oggi oltre 440.000 iscritti, più filopadronale o comunque più favorevole a creare un clima di armonia tra lavoratori e imprenditori e ancora oggi in rapporti decisamente meno conflittuali con il premier Erdogan rispetto agli altri sindacati.

Con il nuovo “golpe” del 1980 tutto si fermò per anni. Malgrado l’Occidente lo definì un colpo di stato “soft”, tanto che i radicali di Pannella lo sostennero considerandolo un’alternativa alla violenza politica che scuoteva il paese da anni, l’attività sindacale venne praticamente stroncata per molto tempo e cominciò a prosperare l’economia sommersa, con l’impiego di un gran numero di lavoratori in nero. Senza contare l’istituzione della legge marziale, la violenta repressione con oltre mezzo milione di arresti e centinaia di morti tra esecuzioni legali ed extragiudiziali.

Due anni, nel 1982, la democrazia venne ripristinata e promulgata una nuova Costituzione che in teoria garantiva e garantisce tuttora i diritti sindacali. È possibile, recita la massima Carta del paese, “costituire sindacati dei lavoratori…. senza ottenere un’autorizzazione preliminare” e “iscriversi a un sindacato” come prevede l’articolo 51. L’articolo 34 sancisce il diritto di organizzare “senza obbligo di ottenere un’autorizzazione preliminare manifestazioni e assembramenti pacifici e non armati”. Mentre gli articoli 53 e 54 affermano il diritto dei lavoratori di “stipulare accordi di contrattazione collettiva” e “di scioperare se insorge una controversia nel processo di contrattazione collettiva”.

Sembrerebbe lo scenario di un paese democratico. All’occidentale, insomma. Se non fosse che, sempre in base alla Costituzione, ognuno di questi diritti – organizzare riunioni, dimostrazioni, iscriversi a un sindacato – può essere in ogni momento limitato per legge a causa di motivi inerenti alla “sicurezza nazionale, all’ordine pubblico, alla prevenzione del crimine o protezione della sanità e della morale pubbliche”. Non solo. La Carta fondamentale proibisce anche “gli scioperi con motivazione politica, gli scioperi di solidarietà, l’occupazione delle strutture produttive, gli scioperi bianchi e altre forme di ostruzione”.

Un quadro, quello che abbiamo descritto, che inibisce fortemente i diritti che la stessa Carta Costituzionale garantirebbe. Secondo il Comitato sull’applicazione delle norme della Conferenza internazionale sul lavoro dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) esistono “discrepanze” fra legislazione e pratica quotidiana “riguardo ai diritti dei lavoratori dei settori pubblici e privato, senza distinzione, di creare e aderire a organizzazioni sindacali di propria scelta, e il diritto delle organizzazioni dei lavoratori di definire le proprie regole al fine di eleggere i loro rappresentanti in piena libertà e organizzare le loro attività senza interferenza da parte delle autorità”.

Naturalmente, questo scenario non rende facile un avvicinamento della Turchia all’Europa, obiettivo che peraltro non sembra più in cima alle preoccupazioni di Erdogan. In un contesto caratterizzato recentemente da tassi di crescita impensabili in Europa (nel biennio 2010-2011 il Pil viaggiava tra il 9,2 e l’8,5 per poi scendere nettamente al 2,2 nel 2012), è comunque l’economia informale a farla da padrone in un contesto in cui sono occupati 23 milioni di persone. Un elemento che non favorisce certo l’adesione al sindacato.

Se pensiamo poi che iscriversi un’organizzazione dei lavoratori del settore privato è più complicato che aprire un’attività commerciale, in quanto ogni nuovo iscritto deve recarsi da un notaio per autenticare cinque copie del modulo di domanda che viene poi trasmesso al sindacato, si può facilmente immaginare quanto i turchi siano stimolati ad avviare una pratica del genere. Come se non bastasse, una copia di questo modulo dovrà essere inviata al ministero del Lavoro e un’altra a quello della Sicurezza sociale. Più semplice la procedura per i dipendenti pubblici. Peccato però che per molte categorie di lavoratori dello Stato risulti praticamente illegale iscriversi a un sindacato.

Complicata anche la procedura che riguarda la contrattazione collettiva, riconosciuta nel privato solo a livello aziendale e nel pubblico solo attraverso un testo di accordo da sottoporre successivamente all’approvazione del Consiglio dei ministri. Non bisogna far lavorare particolarmente la fantasia per immaginare quali sorprese riservino le forze dell’ordine alle organizzazioni sindacali qualora azzardino a organizzare una manifestazione di protesta, come succede ogni anno in occasione del Primo Maggio e come è successo recentemente a piazza Taksim, dove hanno solidarizzato con i manifestanti nelle proteste organizzate negli ultimi due anni, in particolare nel 2013.

Amnesty International denuncia ogni anno decine e decine di arresti di sindacalisti e scontri violenti durante manifestazioni arbitrariamente non autorizzate nel paese. Allo stesso tempo, la stessa associazione umanitaria sottolinea come quelle rare volte che le autorità turche hanno permesso queste iniziative tutto si sia svolto senza alcun problema di sorta. Insomma, la strada per arrivare a una democrazia compiuta in Turchia sembra ancora molto lunga.