Franca Trentin mi ha accolto nella sua casa veneziana, un grande appartamento pieno di libri e ricco di ricordi, con simpatia e grande disponibilità. Sono rimasta colpita dal suo sguardo dolce e al tempo stesso fiero, dall’energia che ancora traspare dai suoi gesti mentre, nel rispondere alle domande, riandava agli avvenimenti di una vita straordinaria, e che mi faceva immaginare quanta forza questa piccola donna ha sempre avuto dentro di sé. Figlia di Silvio Trentin, figura emblematica di antifascista e anticipatore dell’idea federalista dello Stato, sorella di Bruno, appena scomparso, e di cui parliamo altrove, Franca ha una sua biografia da raccontare, una storia all'inizio legata indissolubilmente alle vicende della sua famiglia, ma poi ricca di spunti personali. Anticonformista, nel segno dell’emancipazione femminile fino all’impegno degli ultimi anni per far conoscere il ruolo, importante, delle donne nella Resistenza.

Un padre importante il suo, che ha lasciato il segno nella storia dell’antifascismo.

Sì, un grande padre, ma anche una grande madre che l’ha seguito, nell’esilio volontario in Francia, nel 1926. Lei che era della ricca borghesia trevigiana ha accettato, altre mogli di antifascisti non hanno voluto seguire i mariti; era una donna dal coraggio straordinario, si è adattata, ha dato lezioni private di italiano, faceva tutto da sola in casa con tre figli.

L’esilio in Francia, le ristrettezze economiche, le grandi idealità: cosa hanno rappresentato per lei bambina, per i suoi fratelli?

Anni fa sono andata in una scuola a raccontare dell’esilio degli antifascisti, e l’unica domanda che mi hanno fatto, è stata: "Ma lei non ha odiato i suoi genitori che l’hanno portata nella miseria?". Sono rimasta allibita. Sì, non avevamo soldi, ma eravamo molto felici, non avevamo vestiti nuovi, per anni le zie di Treviso ci mandavano quelli vecchi. Questo culto del denaro che c’è adesso non ci ha mai sfiorato. Eravamo in un piccolo paesetto, pieno di nomi italiani, la zona dei moschettieri, la Guascogna, dove mio padre, improvvisatosi agricoltore, ha perso tutti i soldi investiti in una terra sterile.

Mi hanno messo in una scuola cattolica, dalle suore; è lì che è nato Bruno. Mi ricordo la paura per le oche che mi rincorrevano per beccarmi sulle natiche. Ed è lì che ho scoperto che la lingua materna è quella che si scrive per la prima volta, infatti io penso in francese, fra noi fratelli parlavamo in francese mentre i nostri genitori parlavano a noi in italiano e fra loro in veneto. Ero bravissima a scuola, ero proprio una bambina molto soddisfatta dei suoi genitori, molto fiera di loro, e dunque senza problemi. Più in là, fra i 13 e 14 anni, ho cominciato a essere insofferente. Mi ricordo che a 16 anni, eravamo a Tolosa, alla domanda di un test "chi sei" e a cui si doveva rispondere velocemente con tre idee, sono stata l’unica che ha risposto "Sono una donna" (le altre mascheravano questa coscienza), aggiungendo "Sono una donna che lavora felice". Allora infatti davo lezioni private, c’era il problema di guadagnarsi la vita. Questa coscienza femminile mi è sempre rimasta e la mia prima rivolta l’ho fatta scappando di casa a 18 anni. Mio padre era molto possessivo, geloso, moralista, viveva con angoscia il mio bisogno di libertà. Ma poi questo mio bisogno gli servì quando lui e i miei fratelli, durante l’occupazione tedesca, non potevano uscire di casa, in quanto italiani e antifascisti. Io, invece, francese, potevo muovermi liberamente e quindi aiutarli. Infatti, a 18 anni, mi ero naturalizzata francese perché odiavo l’Italia fascista.

Nel ’43 il ritorno della famiglia in Italia, mentre lei rimane in Francia. Perché questa scelta?

Non fu una scelta, io non potei in quanto francese. E quindi rimasi da sola nella bufera, assieme al mio fidanzato catalano, fuoriuscito dalla Spagna franchista, ricercata perché mio padre nel ’40 aveva fondato il  movimento di resistenza 'Liberare e Federare'. Rimanere da sola e nascosta è stato per me uno strazio enorme, l’unica cosa che ho potuto fare è stata quella di sposare in clandestinità questo catalano e dargli la nazionalità francese. Non avevo contatti con la mia famiglia. Della morte di mio padre l’ho saputo per caso, per una lettera in latino del vescovo di Treviso al vescovo di Tolosa, un telegramma in cui era scritto di avvisare il dottor Trentin che era morto il padre. Avevano capito che era morto mio nonno, ma la radio inglese aveva già dato la notizia... è stata una cosa tragica, non l’avevano scritto sui giornali, le lettere non passavano.

Solo a guerra finita ho avuto la certezza. Io non abitavo più a casa mia, ero nascosta in campagna, in casa di amici. Ho partecipato alla resistenza francese, trasportavo armi in bicicletta con un’incoscienza totale, mi chiamavano 'la stella filante'. Nel ’46 ho avuto il primo figlio, Silvio... Intanto mi ero laureata, due lauree, una in italiano e una in inglese e poi, più tardi, quando insegnavo alla Sorbona, ho conosciuto il mio secondo marito, Mario Baratto, che allora era lettore di italiano. Ci siamo sposati nel ’56. Nel 58 è nato il mio secondo figlio, Giorgio. Una curiosità: tutti i primogeniti dei Trentin si chiamano Giorgio, sulla tomba di famiglia è scritto 'Famiglia Giorgio Trentin'. Mio nonno si chiamava Giorgio e il fratello maggiore di mio padre pure. Anche il figlio di Bruno si chiama Giorgio. L’altro fratello, Giorgio appunto, ha avuto solo figlie femmine.

L’impegno politico e civile è il tratto distintivo della sua famiglia, di suo padre, di suo fratello. E per lei?

Io non sono mai stata iscritta a nessun partito comunista, né francese, né spagnolo, né italiano, fino alla morte di Mario Baratto, tutti mi consideravano comunista... immaginarsi se la moglie di Mario Baratto, la sorella di Bruno Trentin non era comunista. Tanto che dovevo dire "guardate che non sono iscritta, lasciatemi la mia autonomia", non per rifiuto ma perché non mi sentivo abbastanza informata. Consideravo i comunisti italiani arretrati per quanto riguardava i problemi della donna. Mi raccontava Bruno che quando era deputato, (ha fatto una sola legislatura, perché dopo ha fatto votare nel sindacato l’incompatibilità), per il collegio della Puglia; durante i comizi per il divorzio, i compagni gli dicevano: "ma compagno Trentin, perché fare tutto questo lavoro per due o tre cornuti?" Questa era la loro coscienza, perché loro non si vedevano cornuti. In Francia avevo contatti con il movimento femminista, ho sempre militato nel femminismo, anche in Italia, ho fatto conferenze per l’Udi, ero molto vigilante. Anche adesso sono preoccupata per lo scarso impegno che le donne dimostrano verso la politica. Sono stata presidente dell’Istituto veneto per la resistenza, e qui mi sono impegnata perché venisse riconosciuto il contributo importante che le donne, anche quelle democristiane, hanno dato alla Resistenza. Abbiamo fatto un bellissimo libro su questo. Sono sempre stata legata alle storie delle donne. Quando è morto Mario, nell’84, mi sono finalmente iscritta al partito, ho preso la sua tessera.

Per concludere, che consigli vorrebbe dare ai giovani?

Sono molto preoccupata per le donne giovani che conosco, che mi dicono che non sentono nessuna persecuzione, che non si sentono femministe perché stanno benissimo, vivono le nostre conquiste come assodate, non sentono questa misoginia che persiste molto forte. Io credo invece che bisogna dare una forma alla propria vita, una forma morale, etica, e che devono decidere se per loro è fondamentale la causa delle donne. Parlo anche per le anziane, perché c’è anche un modo di lasciarsi vivacchiare con la pensione. Si fanno viaggi, ci si diverte e invece non bisogna dimenticare la solidarietà, il volontariato. Non bisogna perdersi nell’egoismo, "sono affari tuoi, non mi riguarda". C’è spesso questo egoismo nei giovani, questo culto del denaro, la vera gioia di vivere è invece quella di sapere che la propria vita ha un valore. Comunque è molto difficile vivere... (sussurra a fior di labbra alla fine)



Franca Trentin nacque a Venezia il 13 dicembre 1919. Nel febbraio del '26 fu costretta ed emigrare in Francia con la famiglia perché il padre Silvio, docente di diritto a Ca' Foscari, si rifiutò di giurare fedeltà al fascismo. A Tolosa, dove si laureò in lingue, partecipò alla Resistenza nel movimento fondato dal padre. Raggiunse la famiglia, nel frattempo rimpatriata in Italia dopo l'8 settembre '43 per partecipare alla Resistenza, solamente a guerra finita nel maggio del '45. Tornò poi in Francia nel '46 per stabilirsi poi definitivamente a Venezia nel 1966, dove svolse l'attività di lettrice all'Università di Ca' Foscari. L'Anpi di Venezia le conferì la tessera ad honorem. Nel 2009 l'Istituto Storico veneziano, di cui era presidente onoraria, le fece una grande festa per i 90 anni.