Ho conosciuto Vittorio Foa negli ormai lontanissimi anni Settanta, quando venne a Sassari insieme alla sua compagna di allora (Lisa, la Lisetta Giua figlia dell’antifascista sardo Michele). Li accompagnava un gruppetto di fedelissimi nel quale ricordo due ragazzi che sarebbero diventati professori universitari ed ottimi storici: Fabio Levi e Guido Crainz. Li ospitava, in un’aula dell’università, un altro indimenticabile amico, Giampiero Bozzolato, per un curioso seminario aperto dalla provocatoria relazione di uno storico francese amico di Mao, polemicissimo con la storiografia ufficiale del suo paese, autore di un manualetto su come fare la storia dalla parte delle masse: Jean Chesneaux.

Foa mi apparve già allora fisicamente un vecchio. Veniva da una storia che conoscevo bene: irriducibile nemico del fascismo, ne aveva patito i rigori subendo carcere e confino; aveva preso parte alla Resistenza nelle file del Partito d’Azione sfuggendo alla cattura e alla morte; aveva poi combattuto una lunga battaglia nel campo politico e sindacale, diventando uno dei leader di maggior spicco della Cgil del dopoguerra.

Foa era uno dei padri della democrazia repubblicana, ma come accadeva a molti altri suoi compagni di lotta, di quella sua creatura non condivideva più molti aspetti, giudicando che tanti degli ideali dell’antifascismo fossero stati traditi nella pratica compromissoria del dopoguerra. Era laico, ma attento ai valori religiosi; non comunista, per quanto si dichiarasse marxista; sempre curioso del nuovo ovunque ne cogliesse l’apparire. A noi studenti (erano quelli gli anni della cosiddetta rivoluzione studentesca) guardava con interesse e insieme con la speranza che fossimo capaci di riprendere i suoi stessi ideali, e di portarli avanti. Aveva seguito la sua Lisa (più tardi se ne sarebbe separato per innamorarsi, ottantenne, di un’altra donna) nelle peregrinazioni intorno al mondo: la Cina di Mao, l’Africa e l’America Latina e i movimenti di liberazione. Era un quasi settantenne vivo, stimolante, mai banale, pieno di interrogativi, dotato di un eloquio accattivante e di un fascino cui era difficile resistere.

Quel seminario sassarese durò troppo poco. A ripensarci adesso mi dolgo di non averne profittato per conoscerlo meglio. Erano tempi un po’ estremistici. Io ed altri studenti sassaresi più o meno «rivoluzionari» intervenimmo per accusare gli ospiti di un loro vero o presunto peccato intellettuale («Gli scopritori», mi ricordo che li chiamai in un intervento un po’ arrabbiato. La citazione era da Antonio Gramsci, che bollava a quel modo le comitive di parlamentari in gita nella Sardegna del primo Novecento).

Lisa l’avrei rivista molti anni dopo e avremmo riso insieme di quella polemica un po’ infantile (anzi lei ne avrebbe anche scritto, descrivendomi in un libro di ricordi in un improbabile maglione rosso). Vittorio invece non mi sarebbe più capitato di incontrarlo.

La scomparsa di Vittorio Foa non è una perdita da nulla. E’ un lutto collettivo della sinistra italiana e della democrazia. Muore con lui non solo il testimone, onesto e rigoroso, di un’epoca intera della storia d’Italia che va dall’avvento del fascismo sino agli anni Duemila. Scompare anche, più in generale, la coscienza critica della sinistra italiana, la voce che forse più di ogni altra, nei frangenti cruciali, aveva saputo trovare le parole giuste, i toni appropriati per riflettere, per discutere quel che sembrava indiscutibile, per capire quello che nessuno capiva. Una mente lucidissima, accompagnata da una onestà intellettuale assoluta: sia che si applicasse ai limiti antidemocratici dell’esperienza sovietica (come a lungo aveva fatto, quando a sinistra il farlo non era né comodo né scontato), sia che cogliesse i vizi del capitalismo e demistificasse i miti dell’Occidente.
Ricordo una pagina, una sola delle tante che potrei citare, nel bellissimo saggio scritto nel 1975 per la «Storia d’Italia» Einaudi: descrivendo l’avvento della fabbrica industriale nell’Italia di Giolitti, Foa vi coglieva la contraddizione tra un sistema (quello del lavoro industriale) basato tassativamente sulla «dittatura» dell’imprenditore in tutta l’organizzazione del lavoro e i principi della democrazia liberale. La società - diceva - è democratico-liberale, ma il suo nocciolo duro, la fabbrica moderna, è autoritaria. Cortocircuito ineliminabile, tragico, dal quale sarebbero derivati molti dei patemi della democrazia del Novecento.

Limpidissimo, dotato di una scrittura nitida e antiretorica, Foa era sempre «moderno», sempre «contemporaneo». Sia che ponesse in evidenza i limiti delle politiche sindacali, parlando autorevolmente dalle tribune congressuali della Cgil, sia che denunciasse i ritardi culturali della sinistra di cui si sentiva profondamente partecipe. Era anche un uomo generoso, che non si ritraeva dalle proprie responsabilità. Negli ultimi anni, dalla sua casa di Formia dove si era praticamente ritirato, aveva seguito con simpatia il processo costituente del Partito democratico. La mia amica Dora Marucco, che gli voleva bene e andava spesso a trovarlo, lo ricorda come un grande vecchio affascinato dal mondo in trasformazione. Che con chiunque avesse davanti, piuttosto che ricordare il passato, preferiva fare domande.

* Deputato del Partito Democratico. Professore ordinario di storia delle istituzioni politiche e di storia dell’amministrazione pubblica all’Università di Roma La Sapienza

Articolo pubblicato su La Nuova Sardegna il 21/10/2008