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Con questo scritto ci proponiamo di fornire argomenti a favore dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori per ribadire anche su questo versante le ragioni della manifestazione del 25 ottobre 2014 indetta dalla CGIL contro il Jobs act del Governo Renzi che vorrebbe “riformarlo”. Ricostruiremo la storia dello Statuto e ne illustreremo la struttura. In questo modo si capirà bene perché il suo articolo 18 ne è l’architrave e perché esso accende ancora la passione politica sindacale e civile di tanti di noi (e di chi politicamente e sindacalmente la pensa diversamente da noi). Le ragioni della manifestazione della CGIL sono anche altre e in primo luogo la richiesta al governo di abbandonare le politiche di austerità e di mettere all'ordine del giorno l'urgenza prima del Paese, e cioè politiche per l'occupazione. Noi però non ci oc cuperemo di questo, ci occuperemo solo di art. 18 perchè su ciò, a nostro parere, la confusione e la mistificazione è massima.
Sulle origini dello Statuto dei Lavoratori
Forse non tutti sanno che “Statuto dei Lavoratori” non è il vero nome della legge 300 del 27 maggio 1970. Il nome vero della legge 300 è il seguente: «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento». Perché allora questa legge è conosciuta e da tutti è chiamata “Statuto dei Lavoratori”? La ragione sta nelle sue origini, e le sue origini rimandano a Di Vittorio. Fu Giuseppe Di Vittorio, al Congresso della CGIL nel 1952, a Napoli, a parlare per primo della necessità di uno “Statuto” dei Lavoratori e lo fece con queste parole: «E’ vero che le fabbriche sono di proprietà privata(...) non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo di lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo di lavoro l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della repubblica italiana (...). Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua apinione politica, una sua fede religiosa, e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo, dal padrone (...) perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre (...) alle altre organizzazioni sindacali (...) e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne».
18 anni dopo, il ministro del lavoro Giacomo Brodolini, ex segretario confederale CGIL, fece approvare in Parlamento la Legge 300 (il cui testo fu elaborato da giovani giuristi guidati da Gino Giugni). Come abbiamo visto il titolo della legge è lungo e dettagliato, ma nella testa di tutti rimane il nome evocato da Di Vittorio. La parola Statuto indicava bene quanto da lui auspicato. La legge stabiliva che anche sul luogo di lavoro l’operaio (il lavoratore) non poteva più essere considerato dal padrone una “cosa”, una “macchina”, di cui poter disporre a piacimento. Anche sul luogo di lavoro e nel tempo di lavoro il lavoratore doveva restare un uomo, una persona, con la sua propria dignità, il suo amor proprio, con le sue idee politiche, la sua fede religiosa, e quindi anche nel luogo di lavoro egli veniva a godere di tutti i diritti che la Costituzione gli riservava di fronte allo Stato e alla società civile come cittadino. La parola Statuto riassumeva bene tutto ciò e per questo ancora oggi la si usa.
In altre parole, nella Legge 300 si diceva che, dal punto di vista costituzionale, il lavoratore stava all’impresa e al datore di lavoro come il cittadino stava allo Stato e alla società civile. Gli stessi diritti costituzionali che nella società civile garantivano la libertà del cittadino e la dignità della persona dovevano valere per il lavoratore nel luogo di lavoro (si tratta naturalmente del medesimo individuo: persona e cittadino nella società civile, lavoratore nel luogo di lavoro). Per questo allora si disse,e non solo a sinistra (vi è una letteratura giurisprudenziale sterminata al riguardo), che con lo Statuto la Costituzione “entrava” nei luoghi di lavoro. E prima? Prima ne era “fuori”.
Nel dibattito di oggi si dimentica che dal dopoguerra al 1970 furono decine di migliaia i lavoratori e le lavoratrici che vennero licenziati “senza giusta causa” per pura e semplice rappresaglia politico / sindacale oppure per protervia padronale. Si poteva licenziare come è noto “ad nutum”, con un cenno della testa. E in questo modo i diritti costituzionali di libertà e dignità del lavoratore venivano tenuti fuori dal luogo di lavoro. Il lavoratore era costretto a stare attento a manifestare le sue opinioni , le sue idee, la sua appartenenza o simpatia politico sindacale ecc. Proprio quel che Di Vittorio denunciava nel primissimo dopoguerra. Fu talmente ampio il fenomeno dei licenziamenti per rappresaglia padronale che ex post, nel 1974, si cercò di rimediare a quelle ingiustizie con una legge apposita, la n.36/74. Questa legge stabiliva che a quei licenziati “senza giusta causa” né “giustificato motivo” venisse ricostruita la carriera pensionistica con contributi figurativi per i periodi di disoccupazione seguiti a quei licenziamenti. Non furono molti ad usufruirne perché molti erano morti o emigrati o per difficoltà nel reperire la documentazione. Ma qualche migliaio ne beneficiò ottenendo così la “giusta pensione”.
E in che modo lo Statuto portò la Costituzione nei luoghi di lavoro? Nell’unico modo possibile, sottraendo al padrone il licenziamento ad nutum, arbitrario, e vincolandolo alla reintegra sul posto di lavoro del lavoratore licenziato illegittimamente (cioè senza giusta causa o giustificato motivo, oggettivo e/o soggettivo). Da qui l’articolo 18, senza il quale, nei luoghi di lavoro, tutti gli altri diritti dello Statuto vengono depotenziati fino a poter divenire puramente cartacei e non esigibili.
Le “due parti” dello Statuto, quella costituzionale e quella sindacale, ovvero la struttura dello Statuto dei lavoratori
L’originario art. 18 dello Statuto si intitolava «Reintegrazione nel posto di lavoro». Esso era l’ultimo articolo del Titolo II («della libertà sindacale», gli altri articoli erano, dal 14 al 17 nell'ordine, «diritto di associazione e di attività sindacale», «atti discriminatori», «trattamenti economici collettivi discriminatori»,«sindacati di comodo»). «Della libertà e dignità del lavoratore» si intitolava invece il Titolo I. Questo conteneva i primi 13 articoli che avevano (hanno ancora) i seguenti titoli (evitiamo di scrivere tutte le volte art. e le virgolette): libertà di opinione, guardie giurate, personale di vigilanza, impianti audiovisivi, accertamenti sanitari, visite personali di controllo, sanzioni disciplinari, divieto di indagini di opinioni, tutela della salute e della integrità fisica, lavoratori studenti, attività culturali ricreative e assistenziali, istituti di patronato, mansioni del lavoratore.
Crediamo di essere nel vero se diciamo che già i titoli dei singoli articoli siano autoesplicativi dei problemi che allora nei luoghi di lavoro i lavoratori e le lavoratrici avevano riguardo alle fondamentali libertà sindacali e alla loro dignità e libertà personale nel posto di lavoro. Allo stesso modo si coglierà immediatamente che gli stessi titoli degli articoli riguardano quasi con le stesse parole articoli fondamentali della Costituzione relativamente al diritto di opinione ed espressione, di difesa della persona fisica e della persona umana, il diritto allo studio, alla professionalità, alla riservatezza, alla associazione sindacale, ecc. Tutti questi diritti costituzionali sono realmente esercitabili nei luoghi di lavoro solo se non sei licenziabile per le idee che manifesti, per la tessera sindacale o di partito che hai, per il tuo orientamento sessuale, per la tua eventuale fede religiosa, per la tua nazionalità, e così via. Se invece sei licenziabile in qualunque momento e il datore di lavoro si può sbarazzare di te con un indennizzo economico allora quei diritti sono depotenziati e si troverà sempre un padrone che arriverà a trattare il lavoratore come una “cosa”, una sorta di “instrumentum vocalis”, e se ne sbarazzerà .
L’articolo 18 pose fine così ai licenziamenti individuali definiti dal giudice “illegittimi”. La sanzione per il padrone era la reintegrazione sul posto di lavoro. Era eventualmente il lavoratore a poter scegliere una soluzione economica qualora il clima in azienda fosse comunque divenuto “irrespirabile". Lo Statuto però non è stato (e non è) importante solo per la sua “parte costituzionale”, cioè per i Titoli I e II, esso è stato importante anche per una “seconda parte”, la cosiddetta “parte sindacale”, vale a dire per il titolo III, «dell’attività sindacale», quello che rimanda a (art. dal 19 al 27): rappresentanze sindacali aziendali, le assemblee, referendum, trasferimento dei dirigenti sindacali, permessi sindacali retribuiti e nonretribuiti, diritto di affissione, contributi sindacali e locali per il sindacato. Anche qui ititoli degli articoli sono autoesplicativi.
Lo Statuto dunque riconosceva promuoveva e favoriva l’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Perché? Dovrebbe essere immediatamente evidente che il legislatore ha stabilito un nesso profondo tra le due parti, nesso che consiste nella dialettica positiva che tra esse si instaura laddove la parte dei diritti costituzionali favorisce lo sviluppo di quella sindacale e quest’ultima garantisce il consolidamento (anche su base collettiva) della prima. Diciamo pure che le due parti si alimentano l’un l’altra. E perché si è favorita l’attività sindacale nei luoghi di lavoro? Perché lo richiedeva (e lo richiede ancora) la nostra Costituzione. La nostra Costituzione riconosce al sindacato e ai lavoratori organizzati un ruolo assai importante per lo sviluppo di una società equa e giusta, dove il lavoro possa essere sia un diritto che un dovere. Lo fa, come è noto, con i primi 4 articoli e con l’intero Titolo III «rapporti economici» (art. da 35 a 47) dove c'è in particolare l'art. 39 che consente ai sindacati di stipulare contratti nazionali valevoli erga omnes. Fatto è che parte costituzionale e parte sindacale hanno dato e danno alla struttura dello Statuto dei lavoratori un'efficacia davvero forte. Da un lato si rende forte il singolo lavoratore con l'art.18 che può così lavorare tranquillamente a “testa alta” di fronte al suo datore di lavoro perché è tutelato dalla “parte costituzionale” dello Statuto nei suoi diritti e nella sua dignità di persona umana, e dall'altra, con la “parte sindacale” si permette al sindacato (al medesimo lavoratore organizzato) di operare nei luoghi di lavoro nelle migliori condizioni.
In parole povere, lo Statuto dei lavoratori, grazie alla tutela dell'art. 18, limita il potere del padrone / imprenditore nella sua azienda e sottolinea il ruolo positivo e importante dei sindacati e del lavoratore nel luogo di lavoro e nella società.
E' per questo che la sua manomissione è fortemente ricercata da chi vede il sindacato come il fumo negli occhi, e non ammette che nella impresa e nella società sindacati e lavoratori debbano avere così tan to potere e ruolo. E viceversa, la sua manomissione viene fortemente osteggiata da chi vede nello Statuto una delle conquiste più importanti del movimento dei lavoratori e della democrazia tout cout nel nostro Paese.
Per capirci, proviamo a chiederci: cos'è un diritto? Vedremo che la risposta che più si avvicina al vero è che UN DIRITTO È UNA PORZIONE DI POTERE che fa capo alle persone in forma individuale e/o associata. Qualunque diritto ha questa connotazione. Dunque lo Statuto dei lavoratori ha trasferito a lavoratore singolo e /o associato e ai sindacati un potere in azienda e nella società che prima non avevano. Con l'art. 18 questo potere ha potuto (e può ancora) dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. E viceversa. Se si toglie l'art. 18 si togl ie potere al singolo lavoratore e ai sindacati e questa quota di potere la si riconsegna al padrone / imprenditore. In definitiva lo scontro sull'art. 18 è uno scontro su chi e quanto comanda in fabbrica (le fabbriche esistono ancora, e in esse sopra i 15 dipendenti, nel solo settore privato, vi lavorano 8 milioni di lavoratori).
Quelli che periodicamente tornano ad aggredire l'art.18 e lo Statuto dei lavoratori vogliono semplicemente affermare il primato dell'impresa sul lavoro e nell'impresa vogliono più potere di quanto ne hanno oggi. Va da sé che più potere padronale nei luoghi di lavoro significa anche sul piano culturale moltissimo. Quando Renzi sbotta nella direzione del suo partito in diretta streaming, e quindi in diretta TV, rivendicando come ovvio che sia l'imprenditore e non un giudice a dover decidere se un lavoratore gli serve ancora o meno, vuol dire che il valore del lavoro, il diritto del lavoro e la cultura giuslavorista, nella gerarchia dell'insieme dei valori che costituiscono il tessuto sociale e civile del nostro Paese , è scivolato negli ultimissimi posti. E ciò non promette nulla di buono per il futuro decorso della crisi che stiamo attraversando.
Il limite principale dello Statuto dei lavoratori: non vale per tutti.
Il campo di applicazione dello Statuto dei lavoratori è circoscritto alle aziende con più di 15 dipendenti. Questa scelta del legislatore fu il risultato di un compromesso con chi osteggiava allora lo Statuto. Le ragioni di questa limitazione rimandavano grosso modo all'argomento che nelle piccole aziende, il “rapporto di fiducia” tra lavoratore e datore di lavoro fosse troppo importante per impedire a quest'ultimo di licenziare questo o quel lavoratore se tale rapporto fiduciario fosse venuto meno. E' noto che sulla legge 300 il PCI si astenne proprio perché si limitava il campo di applicazione alle aziende con 15 dipendenti. Anche il PCI però riconosceva alla legge un contributo importante alla cultura giuslavorista nel nostro Paese. Naturalmente negli anni si cercò di rimediare a questa limitazione.
Nel 1981 la Federazione CGIL -CISL-UIL presentò una proposta di legge di iniziativa popolare (pubblicata in G.U. n. 135/1981) finalizzata a garantire soluzioni consensuali e favorevoli al lavoratore, in caso di licenziamento senza giusta causa, nelle aziende sotto i 15 dipendenti. Democrazia Proletaria nel 1982 raccolse le firme per un referendum teso a estendere lo Statuto ma la Corte Costituzionaleloritenneinammissibile. La stessa DP ci riprovò nel 1990 e questa volta il quesito fu accolto. Una legge (L. 108 / 1990) evitò la votazione perché rendeva la giusta causa necessaria per tutti i licenziamenti anche sotto i 15 dipendenti, ma invece che la reintegra si prevedeva la tutela obbligatoria, cioè una soluzione economica.
Con gli anni novanta esplodono la globalizzazione e il liberismo, inizia l'aggressione all'art. 18.
Con il crollo del muro di Berlino esplode la globalizzazione liberista. Per competere sui mercati mondiali si assiste ad una corsa sia alle innovazioni tecnologiche sia al più classico strumento capitalistico a disposizione del padrone/imprenditore, l'aumento dello sfruttamento dei lavoratori. Quest'ultimo viene ricercato sia attraverso le delocalizzazioni sia attraverso la moltiplicazione di forme di lavoro precario perché ambedue abbassano i salari. Ci sono multinazionali come la APPLE che abbinano il massimo della ricerca e della innovazione tecnologia con il massimo dello sfruttamento nella produzione dei loro prodotti, fatti in aziende di paesi dove il salario è più basso e il sindacato inesistente. Come è noto anche gli imprenditori / padroni italiani amano la delocalizzazione e oltre 1 milione di lavoratori lavorano in aziende italiane all'estero. In questo clima “post-'89” la cosiddetta cultura giuslavorista di matrice costituzionale comincia vigorosamente ad essere aggredita e a perdere terreno.
Scioglimento del PCI da un lato e Berlusconi al governo dall'altro conducono via via alla prime forme di precariato nel mercato del lavoro (la cosiddetta legge Treu, la legge 196/1997 è quella che introduce il lavoro interinale e quello con contratti co.co.co.), e qualche anno dopo all'attacco frontale all'articolo 18, cioè allo Statuto dei lavoratori. Viene elaborata la “teoria del mercato del lavoro duale” (tra i principali ispiratori di tale teoria il professore Ichino) . Questa teoria sostiene che, per la fuoriuscita dal mercato del lavoro, necessaria alle aziende in tempi a forte concorrenza, i lavoratori tutelati dall'art. 18 siano i n un posto di lavoro “ troppo sicuro” rispetto a quelli non tutelati perché in aziende sotto i 15 dipendenti. Questo dualismo del mercato del lavoro in uscita avrebbe allora provocato un dualismo anche nel mercato del lavoro in entrata e le aziende sarebbero così state costrette ad assumere lavoratori sempre più con forme di lavoro precario per evitare di dover sottostare all'art. 18 nel caso avessero avuto bisogno di sbarazzarsi di loro. L'ipertutela dei padri avrebbe cioè generato la precarietà dei figli, nella sintesi di Ichino e Sacconi agli inizi di questo millennio. Dunque una squalifica radicale e inappellabile dell'art.18. Esso non veniva più indicato come un diritto ma veniva ad essere indicato come un privilegio. Privilegio ingiusto e fonte di guai per le imprese e per i giovani.
Si tratta di falsità. La precarietà e i bassi salari sono il prodotto della globalizzazione liberista non dell'articolo18. Già dopo il crollo dell'Unione Sovietica nel 1989 la globalizzazione ebbe una forte crescita, ma a fine millennio letteralmente esplose. Ci riferiamo a una data precisa perché nel 1999 si è data la possibilità alla Cina di divenire “la fabbrica del mondo” e a Wall Street e Londra di accrescere in modo iperbolico il peso del capitalismo finanziario e deregolamentato. Bill Clinton quell'anno cancellò negli USA la legge di Roosevelt del 1933, il famoso «Glass Steagall Act» che stabiliva la separazione tra banche commerciali e banche di investimento (tale separazione comportava che le banche di in vestimento non potevano utilizzare i soldi dei risparmiatori per i loro giochi in borsa senza l'autorizzazione dei risparmiatori stessi).
Dopo la legge voluta da Clinton molti capitali in occidente hanno smesso di produrre beni nella economia reale per finire sui mercati finanziari dove guadagni e/o perdite e adrenalina (alcuni psicologi sostengono che il gioco in borsa crei “dipendenza”) sono incomparabilmente maggiori che nella cosiddetta economia reale. La Cina ha prodotto al loro posto, con orari e salari inconcepibili allora in Europa e negli USA. E' questo che in occidente ha prodotto il dilagare delle delocalizzazioni e del precariato. Molti in occidente hanno cercato inizialmente di resistere alla concorrenza dei prodotti cinesi sia con le delocalizzazioni sia con i bassi salari veicolati sui precari. Ma nonostante ciò anche a sinistra si è stati sensibili alle tesi del dualismo di mercato. Così con D' Alema al governo si propone per la prima volta la sospensione dell'art. 18 per i nuovi assunti per 3 anni. E lo scontro del governo D'Alema con la CGIL di Cofferati fu durissimo.
Con Berlusconi al governo, 2 anni dopo, la replica. Il 23 marzo 2002 la CGIL di Cofferati, contro l'intenzione di Berlusconi di cancellare l'art. 18, riempì il Circo Massimo con la più grande manifestazione del dopoguerra e il tentativo venne respinto. L'anno successivo l'ultimo tentativo della sinistra di estendere lo Statuto dei lavoratori fu promosso dal “movimento dei consigli” con un referendum. Esso però non raggiunse il quorum, anche se va sottolineato che oltre 10 milioni di italiani votarono a favore dell'estensione. Lo stesso anno però, a febbraio, Berlusconi fa approvare la Legge 30/2003. Una legge delega che a settembre porterà al Dlgs. 276/2003 (cosiddetta legge Biagi) che precarizzerà l'ingresso nel mercato del lavoro con ben 44 forme di lavoro. Oggi, 12 anni dopo, con il Jobs act, ci risiamo.
Tornano pari pari in auge con il primo ministro Renzi le teorie del dualismo del mercato del lavoro (che egli chiama con un linguaggio alla Sgarbi aphartaid) il quale sembra averle accolte solo recentissimamente. Solo fino a prima dell'estate sosteneva infatti che l'art. 18 non era un problema. Fatto è che ora come allora si sostiene che la “riunificazione” del mercato del lavoro senza l'articolo 18 darebbe vita alla ripresa dello sviluppo, alla ripresa dell'occupazione, alla scomparsa del precariato, alla discesa dello spread e quindi del debito pubblico ecc. Il che implica viceversa che chi osteggia tale “riforma strutturale” si rende responsabile di tutti i mali di cui sopra. Da qui l'accusa di conservatorismo alla CGIL. Anche quanti la pensano come la CGIL vengono squalificati come “novecenteschi” se non addirittura “ottocenteschi” (in certi ambienti e su quasi tutti i media sembra essere questo l'insulto peggiore che si possa rivolgere all'avversario politico e sindacale).
Cosa c'è di vero nelle tesi di tale rappresentazione? Non c'è niente come abbiamo detto. Ci sono solo tante bugie che ripetute mille volte finiscono per essere credute. Che cosa c'entra l'art. 18 con la crisi? Niente. Gli USA ad esempio sono entrati e stanno uscendo dalla crisi senza che vi sia nulla che assomigli all'art. 18. Sono precipitati nella crisi per l'avidità e la stupidità dei pescecani dei subprime e ne stanno uscendo con dosi massicce di interventi pubblici e di innalzamento del debito. In Europa abbiamo paesi con l'art. 18 e paesi senza. Tutti però nel tempo sono ugualmente precipitati nella crisi e continuano a subirla perché in Europa prevale il dogma liberista dell'austerità. Dunque con la crisi l'art. 18 non c'entra niente.
E che cosa c'entra l'art. 18 con il precariato e con il dualismo del mercato del lavoro? Niente come abbiamo già detto. Quanto alla tesi che gli imprenditori italiani ed esteri non assumerebbero perché c'è l'art.18 è una tesi che lascia il tempo che trova. Un padrone assume se ha bisogno e guadagna, e l'art. 18 è largamente secondario nel fargli assumere una decisione in tal senso. Ci sono centinaia di testimonianze padronali in questo senso, come ce n'è all'incontrario (a volte facenti capo alla stessa persona, come è capitato al Presidente di Confindustria Squinzi nel giro di pochi mesi).
No. L'art. 18 non è responsabile di tutti i mali di questo Paese come vorrebbe qualcuno. L'articolo 18 rimane un diritto e non un privilegio, rimane il diritto che permette di lavorare “a testa alta”. Per questo andrebbe esteso a tutti e tutte, e non eliminato. Certo è un pezzo del potere e del valore del lavoro che a qualcuno non piace. Si tratta dei padroni/imprenditori e dei liberisti di tutto il mondo che in Europa in particolare devono ancora ridurre e di molto sia il peso dei sindacati sia lo stato sociale lasciatoci in eredità dalla ricostruzione del secondo dopoguerra. La prima aggressione all'articolo 18 che avrà successo si ha con il governo Monti.
La modifica all'art. 18 della cosiddetta legge Fornero (L. 92/2012)
Nel 2012 l'art. 18 viene “manomesso” dalla cosiddetta legge Fornero. A cominciare dal titolo. Ora il titolo è: «tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo», e non più «reintegrazione sul posto di lavoro». Mentre fino ad allora la reintegrazione sul posto di lavoro era la sanzione per tutte le tipologie di licenziamenti illegittimi nelle aziende sopra i 15 dipendenti, ora con la legge Fornero si dà la possibilità al giudice di derogare a questa regola e, per così dire, “monetizzare” il licenziamento illegittimo. Per comprendere in modo semplice le norme della legge Fornero (in vigore dal 18 luglio 2012) diremo che ci troviamo di fronte a 3 tipologie di licenziamenti illegittimi.
a) La prima categoria viene definita dei licenziamenti cosiddetti “discriminatori” ( ad es. in violazione delle norme che tutelano la maternità e i congedi parentali, oppure le norme costituzionali che rimandano alla non possibilità di essere discriminati per razza, idee politiche o appartenenze sindacali, fedi religiose, genere, orientamenti sessuali , ecc). In tutti questi casi (rarissimi) c'è la reintegra e un indennizzo economico (cosiddetta tutela reale)
b) La seconda categoria viene definita dei licenziamenti cosiddetti “disciplinari” (ad es. tutte quelle mancanze che rimandano a colpe del lavoratore sul lavoro). Qui sono pre viste due possibilità, la tutela reale (cioè il reintegro), e la «tutela obbligatoria» (cioè il licenziamento con indennizzo, una sorta di monetizzazione del licenziamento). Chi decide? Il giudice. Come sceglie il giudice? Con dei criteri prefissati. Ad es., se il fatto non sussiste ( lavoratore accusato di aver rubato e poi si scopre che non era vero) c'è la reintegrazione più indennizzo. Negli altri casi, dove il fatto sussiste ma il licenziamento è ugualmente illegittimo perché ad es. sul medesimo fatto il CCNL non prevedeva il licenziamento, allora c'è la «tutela obbligatoria» ( licenziamento con un indennizzo economico).
c) La terza categoria viene definita dei licenziamenti cosiddetti “economici” (rinvia a casi legati all'andamento economico o di organizzazione del lavoro dell'azienda, ad es. scompare “quel” posto di lavoro). Anche qui sono previste due possibilità, la tutela reale e quella obbligatoria. Solo che la tutela reale sembra essere impossibile da presentarsi nella realtà. Essa infatti è legata al fatto che il motivo economico del licenziamento debba venir riconosciuto dal giudice come «manifestamente infondato».
Con queste 3 tipologie di licenziamenti illegittimi la Fornero ha manomesso l'art. 18 lasciando certo sulla carta la tutela reale (il reintegro) in tutti e 3 i casi. Nei fatti però con la terza tipologia, il licenziamento cosiddetto economico, ha dato la possibilità a qualunque datore di lavoro di sbarazzarsi del lavoratore indesiderato. Il motivo economico <<manifestamente infondato>> è infatti una fattispecie alquanto misteriosa e tutta ancora da scoprire. A chi obietta che il datore di lavoro è anch'egli un lavoratore, che è bravo, e non si priva di un suo dipendente per un “capriccio”, rispondiamo che non parliamo di quel da tore di lavoro, parliamo del datore di lavoro “capriccioso”, perché sì, ci sono anche loro, e che se prima i loro “capricci” erano resi sterili con l'art. 18, ora non lo sono più e possono perciò dispiegare i loro effetti dannosi.
Il Jobs act di Renzi, con la proposta del «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti», vuole togliere ogni dubbio, la reintegra non c'è più.
Con il voto di fiducia sulla legge delega (una vera e propria contraddizione in termini: se il Parlamento delega il governo quest'ultimo non gli può mettere fretta e addirittura chiedergli la fiducia) Renzi ha voluto consegnare all'Europa liberista un messaggio assai chiaro. Anche i simboli della stagione favorevole al lavoro vanno abbattuti, e l'art.18 dello Statuto dei lavoratori è certamente stato uno dei simboli più forti di una legislazione a favore delle classi lavoratrici e del sindacato nel nostro Paese. Ora Renzi si presenta in Europa dicendo agli investitori internazionali venite ad investire in Italia, potete licenziare come, quando e chi volete nella vostra azienda. Lo ha fatto con a fianco Marchionne, cioè con colui che per primo nel 2011 andò allo scontro violentissimo con la FIOM e con l'articolo 18 laddove licenziò 3 delegati a Melfi (delegati reintegrati con l'art. 18 naturalmente). Non c'è scritto ancora nulla sul maxiemendamento che è stato approvato al Senato, ma dalle interviste a Renzi, Serrachiani, Poletti ed altri è chiaro che la novità rispetto alla Fornero è rilevante. Nelle 3 tipologie di licenziamenti ve ne sarà una che non prevede la tutela reale ma solo la tutela obbligatoria. Si tratta dei licenziamenti illegittimi di natura economica. La tutela reale resterà per i licenziamenti illegittimi discriminatori e disciplinari. Ma si può star certi che nessun datore di lavoro vi ricorrerà.
Ci si può scommettere: Tutti i licenziamenti illegittimi saranno di natura economica.
Per ora la norma varrà solo per i nuovi assunti con la formula del «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti». E il Governo ci tiene a sottolineare che così non si tolgono diritti a nessuno perché quelli che oggi godono dei benefici dell'art. 18 continueranno a goderne. Sono i nuovi assunti che nei primi 3 anni non ne beneficeranno. E' opinione di chi scrive che siamo ormai al la malafede dei sofisti. E' evidente che quella quota di assunzioni (pur piccola, si dice ora appena sotto il 20% delle assunzioni) che ancora avviene a tempo indeterminato e che beneficia in potenza dell'art. 18 non vi sarà più. Non è togliere dei diritti questo? Ma la cosa che più sbandiera il governo è quella che molte, se non tutte, le forme precarie verranno soppresse dal contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Sarà! Per ora nel maxiemendamento approvato con la fiducia al senato non c'è nulla di scritto in tal senso.
Conclusioni.
Perchè Renzi si è avventurato su questo terreno? Perchè ha spaccato con leggerezza il suo partito? Perchè va allo scontro in maniera così sprezzante con la CGIL? Perchè si è messo ad usare gli stessi argome nti di Sacconi e Ichino e incassare così l'elogio dei direttori di “Libero”, “Il Foglio”, “Il giornale”? Sono domande che si pongono in tanti, nel PD e nella CGIL, ma anche sulla stampa. La risposta per noi è una sola: Il dictat dell'Europa dell'estate d el 2011. Il dictat contenuto nella famosa letterafirmatadaBarrosoeDraghiechemandòacasaBerlusconiemisesuMonti, èancoraoperanteeva realizzatosecondolalogicaliberistadell'austerità. E Renzi verrà sostenuto dall'Europa dell'austerità solo se realizzerà integralmente il dictat del 2011 e le indicazioni e le politiche in esso contenute.
Queste però sono le politiche che ci hanno fatto perdere il 25% della manifattura, che hanno causato un aumento della disoccupazione che è intorno al 13% (e quella giovanile al 44%), che hanno portato il debito pubblico sul PIL dal 115% al 130%, che hanno fatto crescere la povertà più del doppio (sono ormai 9 milioni gli italiani che sono considerati poveri), che hanno determinato un calo dei consumi atto rno al 6%, che hanno arrestato la crescita dei salari (il mancato rinnovo dei contratti pubblici è scandaloso) , che hanno aumentato le diseguaglianze anche nel nostro Paese e raddoppiato simultaneamente il numero dei milionari e i miliardari, ecc.
Il sindacato e la sinistra non possono essere complici di queste politiche. Senza l'art. 18, e il conseguente minor potere di sindacati e lavoratori, questo declino del Paese è destinato ad acquistare velocità ed estensione. Per questo la CGIL manifesta il 25 ottobre a Roma. E lo stesso dovrebbe fare chi si dice essere ancora di sinistra.
Nel jobs act ci sono anche altri provvedimenti che non vanno bene. C'è una norma sul cosiddetto demansionamento (art.13 dello Statuto, anche se non lo si dice) che non lascia certo tranquilli i lavoratori né sulla loro professionalità né sulla possibile riduzione salariale. Ugualmente preoccupante è l'intenzione di controllare a distanza i lavoratori con nuove tecnologie (art. 4 Statuto). Ecc. Ce n'è a sufficienza per prepararci a una lunga e dura opposizione che il 25 ottobre a Roma dovrà cominciare bene e con una grandissima partecipazione. Tutti a Roma dunque.
*Cgil Lombardia