Al recente Salone dell’auto di Ginevra Marchionne ha annunciato, sorprendendo un po’ tutti, che dal 2022 la Fca smetterà di produrre motori diesel. Queste le motivazioni: calo della domanda e costi troppo alti per rendere la tecnologia in linea con gli standard sempre più severi per le emissioni. Non è il primo caso. Lo scorso 5 marzo Didier Leroy, vicepresidente di Toyota, è stato perentorio: dal 2019 il colosso giapponese non venderà più auto diesel in Europa. Questo tipo di motore sarà messo gradualmente fuori produzione. Sulla fine del diesel, sulla sua sostenibilità ambientale, non tutti sono d’accordo (Kia e Nissan, ad esempio, non sembrano così drastiche), ma più di un segnale fa pensare che le motorizzazioni del futuro saranno altre: elettriche, ibride, ma senza dimenticare il “vecchio” metano o gpl.

Sono scenari, questi, che fanno tremare le vene e i polsi dei lavoratori dello stabilimento Fca di Pratola Serra che, coinvolti da una crisi produttiva che dura dal 2008 (1.000 giornate in media di cassa per lavoratore, per una perdita di 30.000 euro e 400 posti di lavoro in meno), si vedono alla vigilia di un futuro buio che è già qui. Perché nello stabilimento in provincia di Avellino si producono, praticamente, solo motori diesel: appena lo 0,5 per cento dei 400.000 pezzi sfornati nel 2017 sono stati a benzina, quelli per l’Alfa 4c e l’Alfa Giulietta Quadrifoglio.

È per questo che nella rivendicazione generale della Fiom – che chiede all’intero gruppo investimenti innovativi per riposizionarsi in un mercato che cambia a velocità della luce (Peter Schwarzenbauer, consigliere di amministrazione Bmw: “Sono convinto che vedremo più cambiamenti nei prossimi dieci o quindici anni di quanti ne abbiamo visti negli ultimi cent’anni”) – la situazione di Pratola Serra è tra le più preoccupanti: “Le tendenze del mercato e le scelte aziendali sembrano non assicurare una prospettiva nemmeno di conservazione dell’esistente, mettendo a rischio il futuro degli attuali lavoratori della Fma di Pratola Serra e delle imprese sopravvissute finora alla crisi”, dice con chiarezza Giuseppe Morsa, Rsa nello stabilimento in provincia di Avellino. I dati, d’altro canto, sono chiari: nel 2017 il mercato delle autovetture diesel dei cinque maggiori produttori ha subìto una decisa flessione: -8 per cento rispetto ai volumi del 2016, pari a 460.000 auto in meno. All’opposto, le immatricolazioni di autovetture ad alimentazione alternativa si avvicinano alla soglia del milione di unità (953.355), in crescita del 39 per cento: ben 265.000 vetture in più rispetto al 2016.

Naturalmente in uno scenario così fluido sembra difficile fare previsioni. “È probabile che le varie dichiarazioni che si leggono sulla stampa produrranno un calo della domanda di vetture diesel – commenta Francesco Zirpoli, che insegna Economia e gestione dell’innovazione alla Ca’ Foscari di Venezia, ed è direttore scientifico del Cami (Center of Automotive and Mobility Innovation) –. Tuttavia, dal punto di vista dei numeri siamo ben lontani dal poter ipotizzare un crollo delle vendite a breve. Per questo non comprendo bene il motivo di dichiarazioni così perentorie da parte di Marchionne.

D’altro canto, anche dal punto di vista dell’impatto ambientale, il diesel non è su un piano sostanzialmente diverso dal motore a benzina”. Per Zirpoli conteranno molto anche le novità sempre più diffuse nei sistemi di mobilità, con la formula del leasing che si fa strada anche tra i privati e l’incremento delle flotte aziendali: “Tutti aspetti che spingeranno verso la scelta delle soluzioni più convenienti e, quindi, con i fattori di vendita che diventano anch’essi assai importanti”. Con, ovviamente, il ruolo cruciale che assumeranno le scelte di policy: “È chiaro che se a livello locale si diffonderanno i bandi al diesel nei centri urbani, a quel punto la domanda crollerebbe”.

La cosa sicura è che, pur in presenza di grandi incertezze, gli scenari mutano a grande velocità. E cosa intenda fare Fca – anche in vista dell’Investor Day del prossimo 1° giugno – non è chiaro. Per questo proprio un mese fa la Fiom ha indetto una settimana di mobilitazione in tutti gli stabilimenti del gruppo: “È indispensabile che la proprietà faccia chiarezza sul futuro, non pensi solo all’azzeramento del debito, investa su nuovi modelli e favorisca la transizione dai modelli con motori tradizionali a nuove motorizzazioni ibride ed elettriche, perché senza innovazione non c’è futuro e occupazione”, dice Michele De Palma, della segreteria Fiom.

“Rispetto alle principali tendenze innovative Fca non ha una posizione di leadership – rincara la dose Morsa –. L’auto elettrica è considerata da Marchionne un’arma a doppio taglio. Una regola che non vale per la Ferrari poiché è stato annunciato che la prima Supercar elettrica sarà di sua produzione”. Così, in effetti, l’Ad di Fca si è espresso solo pochi mesi fa durante la cerimonia nel corso della quale l’Università di Trento gli ha conferito la laurea honoris causa in ingegneria industriale: “Questo è un progetto su cui Fca lavora, ma non è la soluzione per il futuro. Stiamo lavorando su tutte le forme di auto elettrica, ma non possiamo ignorare alcuni elementi importanti”.

Per i sindacati, invece, Pratola Serra avrebbe tutte le caratteristiche per essere oggetto di investimenti verso produzioni innovative. La forza lavoro è giovane – in media 40 anni – e con livelli di professionalità tali da garantire una sicura adattabilità a produzioni di qualità e a livelli di produttività notevoli. D’altro canto nella prima metà degli anni novanta la costruzione dello stabilimento – sul sito dove prima si fabbricava l’Arna – rappresentò una sfida per la Fiat Auto, che investì in questo progetto non soltanto sensibili risorse finanziarie, ma anche una notevole parte della propria immagine di gruppo manifatturiero.

La sperimentazione di una flessibilità produttiva e una nuova organizzazione del lavoro dovevano essere sulla carta garanzia di una lunga vita produttiva per lo stabilimento, con il coinvolgimento diretto dei lavoratori – tutti giovanissimi e alla prima esperienza: il cosiddetto “prato verde” –, con un modello partecipativo ispirato in qualche modo al toyotismo nipponico. La realtà però si è rivelata ben diversa. “La flessibilità, con i vari sistemi di metrica (cioè l’organizzazione capillare dei tempi e dei movimenti dei lavoratori in produzione, tra cui il Tmc2 e il Vcm, ndr) si è ben presto rivelata uno strumento di controllo stressante e pressante – spiega Italia D’Acierno, operaia e Rsa –, con ritmi di lavoro sempre più duri e incalzanti e un controllo massiccio sui lavoratori”. Per non parlare poi degli aspetti relativi all’ambiente e alla sicurezza: “Nella nebulizzazione, dove vengono preparati i basamenti del motore, si produce una nebbia fitta e fastidiosa, l’azienda dice che non è nociva, ma noi non ne siamo del tutto sicuri. Hanno messo degli aspiratori, ma per risparmiare non li accendono sempre”, attacca la delegata che è anche responsabile per la sicurezza.

Insomma: la storia è andata diversamente e va anche ricordato che dalla sua nascita ben 450 milioni di euro di risorse pubbliche sono stati investiti a Pratola Serra per i vari contratti di programma. Anche per questo, e per garantire occupazione in un territorio in cui c’è poco altro, lo stabilimento non può essere lasciato deperire. Da questo punto di vista, le richieste della Fiom sono chiare. Al primo punto, in una strategia difensiva che punta ad attenuare i danni nel breve periodo, c’è l’assunzione di una sorta di solidarietà tra gli stabilimenti. A Termoli e Foggia, per dire, si ricorre agli straordinari, mentre a Pratola Serra si continua con gli ammortizzatori sociali. Dunque, per i meccanici della Fiom, l’azienda deve spostare in provincia di Avellino una produzione nuova che garantisca piena occupazione in questa fase di transizione.

Naturalmente questo non basta: “È necessario – sottolinea Morsa – interpretare le dinamiche tecnologiche e anticipare progetti di riconversione produttiva verso i sistemi di propulsione alternativi. Si tratta, in questo caso, di progetti ambiziosi che hanno una base di fattibilità nella rete di centri di ricerca di eccellenza pubblici e privati esistenti su scala regionale – in primo luogo la Elasis di Pomigliano d’Arco, le Università di Napoli e Salerno, gli istituti del Cnr –, ma che necessitano di una maggiore dinamicità dell’imprenditoria locale e soprattutto di scelte chiare di politica industriale che finora sono mancate. Il soggetto pubblico deve avere un ruolo promotore e garante”.

“È chiaro che la decisione di dove allocare le produzioni dipende da scelte aziendali che rispondono a tante variabili – conclude Zirpoli –. Tuttavia, anche in uno scenario che dovesse vedere il Diesel tramontare a favore di altre motorizzazioni, gli stabilimenti impegnati nella produzione di motori, incluso Pratola Serra, avrebbero competenze riutilizzabili nella produzione di motori di nuova generazione accoppiati a quelli elettrici in soluzioni ibride”.