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Alle 7 del mattino le operaie dell’ex Idea Motore – Pratosardo, area industriale nuorese – varcano i cancelli della fabbrica di motori per lavatrici, ma non è una giornata di lavoro. Quello non c’è più dal 2008, dai primi tempi della grande crisi che ha travolto via via centinaia di altre piccole e grandi fabbriche e bruciato in Sardegna sessantamila buste paga. A Pratosardo ci sono capannoni e attrezzature, quel che resta della speranza di ottanta dipendenti, quasi tutte donne.
Caparbiamente, difendono il luogo dove hanno lavorato da sempre, mentre due imprenditori di Viterbo sono nell’isola per portare via i macchinari messi all’asta dal procuratore fallimentare. È successo qualche settimana fa e, scongiurata la svendita con un presidio a oltranza, le operaie aspettano che la finanziaria regionale Sfirs dica finalmente la sua sul progetto industriale della Am Italia: da qualche anno la società bresciana ha chiesto un prestito per rilanciare la fabbrica di Pratosardo, con la promessa di riassorbire in organico tutte le lavoratrici.
Una prospettiva legata all’eventuale finanziamento del Fondo per la reindustrializzazione delle aree industriali (Frai). Anche le altre aree lì intorno, Ottana, Macomer e Siniscola, attendono una nuova opportunità di sviluppo. Sono i luoghi delle ex fabbriche chimiche e tessili, degli ex lavoratori aggrappati per anni alle mille mutazioni degli ammortizzatori sociali, fino alle deroghe delle deroghe.
Nel frattempo, senza aspettare il decreto Poletti che pochi mesi fa ha cancellato per sempre la reiterazione di quei sussidi, chi governava avrebbe dovuto costruire un’alternativa, creare le condizioni per nuove imprese e nuovi posti di lavoro. Ma non è successo, e ora che a irrobustire disagio e battaglie c’è la fine degli ammortizzatori, i lavoratori del nuorese organizzano l’ennesima mobilitazione. Un territorio pronto a farsi sentire sino a Cagliari, per dire alla giunta Pigliaru che lo sviluppo di quelle aree non può più aspettare.
L’ex Idea Motore è una storia simbolo. Perché è una storia di donne in un’isola dove il tasso di occupazione femminile si ferma al 39,7 per cento, perché racconta di una fabbrica che ha un progetto e un piano di investimenti stoppato per anni dalle lentezze di burocrazia e politica, perché sta dentro un contesto economico e sociale depresso, le aree interne della Sardegna, dove lo Stato chiude scuole e uffici pubblici, e persino la Regione dimentica di guardare, quando immagina come rimettere in moto la crescita. Una storia simbolo che rivive in altri luoghi, in altre facce e lotte di lavoratori perennemente mobilitati per poter varcare di nuovo i cancelli, in un giorno di ordinario lavoro.
A duecento chilometri dal deserto nuorese, gli operai Alcoa – Portovesme, area industriale sulcitana – sono accampati da mesi davanti allo stabilimento e aspettano che Glencore rilanci le produzioni di alluminio. Sembra di poterlo afferrare questo traguardo, dopo la firma del memorandum che fissa i termini dei contratti per l’energia al ministero, ma per scrivere l’happy end bisogna aspettare che le multinazionali trovino l’accordo definitivo per la cessione. Un’attesa che accomuna anche i lavoratori di Eurallumina, la fabbrica di ossido di alluminio di cui è proprietaria la multinazionale russa Rusal: a sei anni dallo stop, la svolta potrebbe arrivare con la firma del protocollo d’intesa al ministero, per definire i termini del risanamento e riutilizzo del bacino di fanghi rossi, ancora in parte sotto sequestro della procura di Cagliari.
Al futuro dei cinquecento operai Alcoa e dei trecento di Eurallumina è legato il quotidiano di almeno altrettante famiglie dell’indotto, e ancora, degli oltre cento lavoratori ex Ila, la fabbrica di laminati che potrebbe ripartire sotto la nuova insegna Portal aprendo anche la strada a una filiera tutta sulcitana dell’alluminio. Pure qui una storia di tempi lunghi e autorizzazioni negate (tre pale eoliche per autoproduzione di energia), con un nuovo imprenditore che minaccia ora di abbandonare progetto e operai.
Risalendo la Sardegna, a settanta chilometri da Portovesme gli operai della Keller – San Gavino, nel Medio Campidano – sono fermi da più di due anni e l’ipotesi di rientrare a lavorare nella fabbrica di vagoni ferroviari è duramente compromessa dalla sentenza per fallimento emessa dal tribunale di Cagliari la settimana scorsa. Il giudice ha deciso di rigettare la richiesta di amministrazione controllata sostenuta da Regione e ministero per vagliare le ipotesi di acquisto e rilancio.
La mattina della sentenza i lavoratori hanno trovato i cancelli sbarrati (nessuno poteva entrare in fabbrica senza l’autorizzazione della sezione fallimentare del tribunale) ma erano nel piazzale lì intorno a presidiare uno stabilimento che ora rischia di essere spezzettato e svenduto. Stesso copione vissuto dalle donne dell’ex Idea Motore, e che ora muove gli operai Keller verso una resistenza a oltranza, nutrita di mobilitazioni e atti formali come un ricorso in Corte d’Appello. Ai due estremi opposti dell’isola, al Sud e al Nord, non stanno più tranquilli gli operai della chimica sopravvissuta alle innumerevoli dismissioni. Se, come e quando qui lo dice l’Eni, ma il sindacato di categoria rivendica un ruolo più deciso da parte della Regione, perché in questi mesi si giocano partite centrali per il futuro delle produzioni in Sardegna.
C’è lo sviluppo della chimica verde – Porto Torres, area industriale del sassarese – che dopo l’avvio di due di otto impianti da realizzare in sei anni sembra subire una battuta d’arresto per le incertezze di Eni sulla realizzazione della centrale a biomasse. Che poi fa parte di un accordo ben più ampio siglato nel 2011, quando Eni chiude il craking ma decide, per una volta, di restare sul territorio investendo settecento milioni per una mega bioraffineria, insieme a Novamont.
Difficile ora accettare che parte di quell’investimento – 230 milioni di euro – non ci sarà. Perché potrebbe anche favorire – per dirla con le parole dei chimici Cgil – presupposti tali da giustificare in prospettiva un abbandono dell’Eni da Porto Torres. Storia già vista d’altronde: a Sarroch – area industriale del cagliaritano – dove il gruppo petrolchimico ha annunciato la fermata degli impianti di xileni e ceduto la produzione di aromatici alla Sarlux dei Moratti, e nella vicinissima Assemini, dove l’anno scorso ha stoppato l’impianto di dicloretano e adesso mira al disimpegno dalle produzioni del cloro. Quel che produce ogni singolo abbandono è una cascata, anche se non è sempre chiarissimo di quali e quante strumentalizzazioni le grandi aziende travestano le loro azioni.
A Ottana Polimeri – di nuovo sull’area industriale nuorese – da metà novembre i lavoratori sono in cassa integrazione straordinaria e l’azienda, che produce Pet sotto la proprietà mista dell’imprenditore Clivati e della multinazionale Indorama dice che le difficoltà sono legate alla chiusura dell’impianto di paraxilene di Versalis (sempre Eni) a Sarroch. Il sindacato, pur ipotizzando che Indorama preferisca invece acquisire Pet in Olanda anziché rafforzare l’impianto nuorese, chiede alla giunta di interloquire di più e meglio con Eni, per affrontare tutte le conseguenze che le varie fermate producono nei territori.