Il blocco stradale, quale modalità di esercitare il dissenso politico e sindacale, è stato in passato oggetto di particolare attenzione del ministro Scelba, che ottenne nel 1948 la sua introduzione tra i nuovi tipi di reato: era punito con la pena della reclusione da uno a sei anni chiunque avesse impedito o ostacolato la circolazione di veicoli e pedoni; la pena era raddoppiata se si trattava di più persone. È noto che il blocco stradale è commesso principalmente in occasione di scioperi o di manifestazioni di protesta, tanto da essere considerato una modalità dell’esercizio di alcuni diritti costituzionali (diritto di sciopero, articolo 40, e diritto di manifestazione del pensiero, articolo 21). La sua depenalizzazione nel 1999 rappresentò quindi, in un’ottica puramente garantista, una scelta di formale adesione ai principi della nostra Carta costituzionale.

Oggi siamo purtroppo tornati alla severità del ministro Scelba: con l’articolo 23 del decreto legge 5/10/2018 n. 113, il blocco stradale è di nuovo reato. Un ritorno alle vecchie pratiche illiberali tanto in voga specialmente ai tempi dei governi centristi? Che si tratti di un programmato incremento di autoritaria repressione emerge anche da un altro provvedimento di cui è responsabile l’attuale esecutivo: mi riferisco all’ampliamento – parzialmente contestuale – di uno strumento capace di causare la sofferenza e anche la morte di chi si trovi in una situazione di contrasto con agenti di pubblica sicurezza. Si tratta della pistola elettrica, strumento di violenza, di intimidazione, di anticipata punizione, ben più pericoloso e dannoso dell’antico manganello.

È bene a questo punto ricordare che una normativa originariamente diretta a fronteggiare la violenza manifestata negli stadi di calcio, il dl 22/8/2014 n. 119 (all’articolo 8), era stata introdotta dal legislatore di centro-sinistra. A pochi giorni dall’approvazione di quel decreto, il 29 settembre 2014, le commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera avevano approvato un emendamento in base al quale le forze di polizia erano autorizzate all'uso della pistola elettrica Taser contro i partecipanti a manifestazioni e a eventi sportivi. Tale emendamento aveva aggiunto all'articolo 8 il comma 1 bis, che dispone "con decreto del ministro dell'Interno, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l'amministrazione della pubblica sicurezza avvia, con le necessarie cautele per la salute e l'incolumità pubblica e secondo princìpi di precauzione e previa intesa con il ministro della Salute, la sperimentazione della pistola elettrica Taser per le esigenze dei propri compiti istituzionali ".

Dopo la conversione in legge 17/10/2014 n. 146 da parte del precedente schieramento parlamentare, la sperimentazione della pistola Taser è stata avviata dal governo attualmente in carica, limitatamente a 6 città italiane (circolare emanata il 20 marzo 2018 dalla Direzione anticrimine del ministero dell’Interno); è stata poi estesa, con decreti del ministro Salvini, al complessivo ordine pubblico di 12 città: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi, Genova. Non solo. La sperimentazione, inizialmente prevista per la Polizia nazionale (Polizia di Stato, arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza), con l’articolo 19 del decreto legge 4/10/2018 n. 113, coinvolge, a spese degli enti locali, la polizia urbana delle città con popolazione superiore a 100 mila abitanti.

Questo crescendo di strumenti di offesa affidati a tutori dell’ordine nazionali e locali – già dotati di armamenti non sempre utilizzati in maniera lecita – pone l’interrogativo sul fine di questa estesa chiamata alle armi, sia pure circoscritta a una sola arma comune a impulso elettrico (pistola elettrica, pistola a elettroshock, dissuasore elettrico). La domanda che insomma si pongono in molti è quale sia – al di là dei proclami di ordine e legalità – la reale funzione assegnata alla suddetta arma dall’attuale governo e dalle forze politiche ed economiche che lo sostengono.

L’esigenza di dare mano libera alle forze di polizia, per consentire di far bene il loro lavoro, evitando l’applicazione del reato di tortura, è stata nel luglio scorso sottolineata da esponenti politici di destra. Il richiamo alla tortura non è affatto campato in aria, se si tiene presente la valutazione che dell’arma elettrica hanno fornito le Nazioni Unite, il cui Comitato contro la tortura nel novembre del 2007 si è così pronunciato: "L'uso di queste armi causa dolore acuto, e costituisce una forma di tortura. In taluni casi, possono persino causare la morte, come è stato mostrato da studi affidabili e recenti eventi nella vita reale".

Un altro fattore critico è rappresentato dalla facilità con cui la pistola elettrica può rilasciare scariche multiple, che possono danneggiare anche irreversibilmente il cuore o il sistema respiratorio. Parafrasando la definizione di tortura delineata dalla Convenzione contro i trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984, ogni lavoratore, studente, disoccupato, immigrato è esposto – nel corso di manifestazioni di dissenso che ostacolino la circolazione e motivino l’intervento della polizia – a un comune pericolo: essere bersaglio, per mano di un agente di pubblica sicurezza, di uno strumento idoneo a causare dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, finalizzate a punire per un atto che ha commesso o è sospettato di aver commesso, a intimidirlo o a esercitare pressione o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione.

Antonio Bevere, già consigliere della Corte di Cassazione