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Il Jobs Act è uno strumento che nelle intenzioni del governo Renzi ha lo scopo di rimettere in moto l'occupazione. Il contratto a tutele crescenti, che ne è l'architrave, sarebbe “l'alfa e l'omega” della politica del lavoro, perché, secondo le intenzioni, sarebbe capace di contribuire alla creazione di nuovi posti di lavoro riportando il nostro sistema economico verso un sentiero di crescita positivo disperso ormai da troppi anni. Ma è realmente così? Vi sono buone ragioni per essere scettici. Queste ragioni risiedono rispettivamente in fattori sia di natura legislativa che di natura economica. Partiamo dai primi.
1. Il disegno di legge delega sul lavoro non crea lavoro perché gli stessi criteri posti alla base della norma favoriscono sostanzialmente il mutamento della tipologia del rapporto di lavoro, più che la creazione di nuovi posti di lavoro (dunque occupazione addizionale). Ciò accade perché nel Jobs Act non esiste alcun vincolo che impedisca alle imprese di sostituire una funzione lavorativa preesistente con una nuova disciplinata attraverso il contratto a tutele crescenti. Perciò, il rischio che racchiude in sé la riforma è quello di incentivare le imprese a effettuare una mera sostituzione di occupazione preesistente con nuova occupazione, che però non sarà né addizionale né complementare, in termini quantitativi, e quindi senza nessun impatto positivo sui livelli occupazionali complessivi.
La sostituzione avrà tuttavia l'effetto di restringere il perimetro già angusto dei diritti dei lavoratori, per le modalità che disciplinano il nuovo contratto a tutele crescenti. In altre parole, questa riforma del lavoro non aumenterà il saldo netto dell'occupazione, ma peggiorerà la situazione attuale in quanto altera definitivamente il rapporto di lavoro, rendendo sempre più marginale il contratto a tempo indeterminato. Insomma, al danno della mancata creazione di posti di lavoro si affiancano la contrazione dei diritti e la beffa del trasferimento di risorse, attraverso il meccanismo degli incentivi sul lavoro, a favore delle imprese, squilibrando ulteriormente il rapporto di lavoro, sia in termini economici che giuridici.
2. A questi aspetti critici si aggiunge poi la questione più strettamente economica dell'impatto di questa riforma del lavoro sulla competitività del sistema produttivo. Riuscirà questa ennesima trasformazione a riavviare gli investimenti e il processo innovativo delle imprese italiane? La risposta è anch'essa negativa. Non esiste infatti nessun meccanismo a priori, di causa ed effetto, che trasferisca il vantaggio conseguito dalle imprese con la riduzione del costo del lavoro, diretto e indiretto, verso la spesa in nuovi investimenti, aumentando l'intensità di capitale e il contenuto innovativo dei prodotti e dei processi.
Anzi, la riduzione relativa del costo del lavoro, rispetto a quello d'uso del capitale (impianti, equipaggiamenti materiali e immateriali, beni tangibili e intangibili), può avere l'effetto perverso di frenare ulteriormente la spesa in investimenti e spingere le imprese a ridurre il contenuto tecnologico delle loro attività produttive (siano esse produzioni di beni o di erogazione di servizi), danneggiando in maniera permanente la produttività del lavoro, con ricadute negative sia sui salari che sulla competitività.
Se confrontiamo il costo del lavoro reale italiano con quello dei principali paesi europei, come la Germania e la Francia, ci rendiamo conto facilmente che la differenza non è determinata dal cuneo fiscale, che è mediamente intorno al 44 per cento, e con un peso minore in Italia di circa un punto rispetto agli altri due paesi europei, ma dal salario netto che in Italia è in media del 30 per cento più basso (in Ppa), riflettendo la minore capacità del nostro sistema nazionale di produrre valore aggiunto e distribuirlo sotto forma di redditi.
Insomma, il costo del lavoro rappresenta solo una parte del problema della competitività, essendo l'altra la produttività del lavoro, che dipende essenzialmente dal capitale fisso, dal suo contenuto tecnologico e dal vincolo tecnologico che determina il modo in cui il lavoro si interfaccia con i mezzi di produzione.
Se accettiamo questa impostazione e, dunque, guardiamo al costo del lavoro per unità di prodotto come indice di competitività determinato da due variabili, ossia salari e produttività, diviene allora più facile evidenziare le debolezze del nostro paese e la pressoché nulla capacità delle numerose riforme del lavoro degli ultimi anni di rimettere “in moto la macchina” dello sviluppo.
È indiscutibile il fatto che dal 1992 a oggi si è registrata in Italia una continua caduta del tasso di crescita dell'intensità di capitale, degli investimenti e del progresso tecnologico; e che questo deterioramento ha trascinato verso il basso la produttività del lavoro. Se queste trasformazioni in negativo non sono figlie della deregolamentazione del mercato del lavoro (qualcuno così sostiene), che si è accompagnata ad altre epocali modificazioni del nostro modello di sviluppo (si pensi all'euro o alle mal realizzate privatizzazioni), certo è che tali riforme non ne hanno nemmeno contrastato questa caduta.
Anzi, ne hanno accelerato il processo di contrazione, restituendoci oggi un sistema paese minato nella sua capacità di crescita, impoverito nel suo apparato industriale, svuotato nel contenuto tecnologico delle sue attività produttive, depauperato nelle sue conoscenze, squilibrato nella distribuzione dei redditi e frustrato dalla crescente disoccupazione. Un paese, com’è l'Italia, che registri contemporaneamente una crescita della disoccupazione e una caduta della produttività del lavoro, manifesta un’estrema criticità che non può essere risolta, ma solo aggravata, da ulteriori deregolamentazioni del lavoro.
Un costo del lavoro troppo elevato può essere un disincentivo agli investimenti. Ma un costo del lavoro troppo basso e una ridotta tutela del lavoro, sviliscono il lavoro (e la sua dignità), e possono spingere le imprese a preferire produzioni a basso valore aggiunto e contenuto tecnologico, che finiscono nel tempo per “affossare” non solo il lavoro, ma anche le stesse imprese.
La strada maestra passa dunque per un altro modello di sviluppo che deve riportare al centro il lavoro duraturo e di qualità. Questo richiede però una presa di responsabilità che non può ricadere solo sul mondo del lavoro, ma anche su tutte le imprese che non abdichino alla loro responsabilità sociale, e sulla politica lungimirante, che abbia come bussola del suo operato il benessere comune.
* Professore di Economia politica all'Università di Urbino