Esistono per i sindacati e gli altri attori sociali spazi d’azione diversi da quelli concertativi e nazionali praticati negli ultimi due decenni? Da questo interrogativo è possibile partire guardando alla crescita di importanza della dimensione territoriale delle intese, sia concertative che soprattutto contrattuali, sottoscritte tra le parti sociali Più strade sono percorribili a fronte all’attuale impasse.  Le organizzazioni sindacali possono continuare a rivendicare un’interlocuzione nazionale su nodi “politici”, a fronte comunque del numero di iscritti che aggregano (che resta solido e ragguardevole); possono riscoprire la propria vocazione movimentistico-conflittuale, come si può vedere in queste settimane nei confronti della riforma della scuola; oppure, ancora, possono sperimentare alternative territoriali, sia di tipo concertativo che di tipo classico.

In questa prospettiva, gli attori territoriali, che siano le organizzazioni sindacali o le associazioni di rappresentanza datoriale e tutte quelle realtà associative presenti nei diversi territori, possono anche utilizzare strumenti che siano in grado di combinare misure di vario genere e in parte inedite, in certa misura risarcitorie, ma anche innovative,  a favore dei diritti e del lavoro, a sostegno delle imprese e del welfare. Ciò perché si è esaurito il vecchio ciclo di concertazione territoriale legato all’impostazione della programmazione negoziata, e che vedeva al suo interno una varietà di strumenti possibili. Alla prova dei risultati esso ha lasciato tracce inferiori alle attese.

Al contempo, sul fronte della contrattazione, complice anche la crisi economica, si sono significativamente ristrette le esperienze tradizionali di contrattazione acquisitiva, che avevano un incubatore in alcuni distretti virtuosi, ma che si basavano fondamentalmente su una tradizione di derivazione di tipo volontarista messa in campo autonomamente tra le due parti. In questa cornice, è da registrare la prosecuzione di esperienze di contrattazione sociale, promosse spesso dalle organizzazioni sindacali rappresentative dei pensionati, a cui si aggregano altre categorie o confederazioni sindacali. In generale, esse sono risultate carenti nei rapporti bilaterali con le associazioni datoriali e, negli ultimi anni, hanno finito con il concentrarsi solo in alcune aree di eccellenza. Peraltro, esse hanno assunto con il tempo caratteri prevalentemente assistenziali-integrativi, con lo scopo prevalente di contrastare i disagi e le povertà emergenti.

Di per sé, la pratica della contrattazione sociale è da valutare certamente in termini positivi, ma mostra in maniera evidente come si manifesti un’assenza di collegamento tra il perseguimento di politiche sociali, che cercano di contenere le criticità, e il perseguimento delle politiche del lavoro più orientate ad accrescere o affinare le tutele, oltre che indirizzate all’aumento dell’occupazione o ad altre partite innovative. Non solo. Si manifesta una parcellizzazione tra innesti di “welfare risarcitorio”, più propriamente perseguibili a livello territoriale, e regolazione del lavoro e tutela del “welfare addizionale”, che sono invece affrontati in prevalenza a livello di singola azienda o, ancor meglio, di (alcune) grandi aziende.

A fronte comunque di tali possibilità vecchie e nuove, il livello territoriale è praticato meno di quanto sarebbe possibile e meno bene di quanto sarebbe necessario. Uno dei nodi su cui concentrare l’attenzione è riassumibile in tale interrogativo: in che misura la regolazione territoriale può dare un significativo apporto, sia per il reale coinvolgimento dei vari attori socio-economici e istituzionali, sia perché possa far emergere anche politiche di sviluppo e innovazione (di medio-lungo periodo), e non calibrate sulle sole emergenze contingenti (di breve periodo), dovute alle note circostanze di difficoltà del sistema produttivo italiano?

L’interrogativo implica la capacità di “fare rete”, finalizzata però a obiettivi di sviluppo precisi, che devono costituire la sintesi di esigenze varie ed eterogenee, a fronte del numero dei possibili attori: piccole e grandi imprese, diverse sigle sindacali, associazioni e istituzioni pubbliche, eventuali altri soggetti locali. La contrattazione territoriale, intesa in senso ampio, può pertanto supplire alla debolezza delle contrattazione aziendale nelle piccole realtà, in modo da rivitalizzare la stessa adesione delle aziende verso associazioni di rappresentanza datoriale, nella gestione delle incertezze che reca con sé la crisi economico-finanziaria e nei confronti di materie qualitative, come, a titolo esemplificativo, la conciliazione, la formazione e il welfare.

 Ma, al contempo, va riconosciuto che la pratica della contrattazione territoriale richiede un clima diverso, non più di contrapposizione, ma di ricerca e incontro reciproco volto alla cooperazione e alla condivisione di interessi comuni, dove ogni attore fa la sua parte. Come accade nel perseguimento della produttività, che può portare a un nuovo scambio, magari ben calibrato territorialmente, che consenta di superare il sistema bloccato che penalizza da tanti anni tanto la crescita che la redistribuzione. Dunque, le parti possono svolgere un ruolo più rilevante se sapranno coltivare la pratica dei loro interessi, in chiavi diverse da quelle tradizionali, mediante il perseguimento di beni pubblici locali (a partire da quelli che aiutano la competitività dei territori).

Un importante parametro di misura delle intese territoriali consiste nell’analizzarle nell’ottica di apertura di questo strumento verso “nuovi beni”: come, tra i vari sviluppi, il welfare e la giustizia sociale. Appare plausibile che il vecchio guscio della contrattazione sociale, pur rilevante, non sia più adeguato: per questo vanno elaborate esperienze di raggio più ampio, settoriali ed intersettoriali, tali da coinvolgere l’insieme delle strutture sindacali. In questo senso, comincia ad affacciarsi un censimento delle esperienze che rientrano dentro questo perimetro più ampio e di alcune di esse si trova traccia nel numero 2 dei Quaderni di Rassegna Sindacale.

In primo luogo, l’esperienza toscana e, più nello specifico, il distretto industriale di Prato. Nel prenderlo in esame, QRS dà rilievo al ruolo del sindacato nei tre interventi promossi con il “Progetto Prato”: il progetto di welfare distrettuale, il protocollo di intesa sul segmento Ict e il progetto Asci, per far fronte alla presenza della comunità cinese nel tessuto locale. L’esperienza campana è oggetto d’indagine nel secondo contributo, laddove, assieme a un confronto conclusivo con alcuni rappresentanti regionali e provinciali delle organizzazioni sociali ed economiche di rappresentanza, viene messa in evidenza in particolare la contrattazione decentrata sul costo del lavoro, dove viene fatta leva sulla detassazione del salario di produttività e sulla concertazione sociale, incentrata sulle politiche del lavoro giovanile e su alcuni settori del welfare.

Senza dimenticare il contributo sull’esperienza peculiare della Sozialparnerschaft trentina, come metodo di governo a partire dalle radici storiche del consolidamento della concertazione sociale trilaterale, non solo diretta a un approdo verso una più matura contrattazione bilaterale, ma anche capace di consolidare il welfare territoriale e di rinnovare la rappresentanza nelle transizioni. Quali conclusioni? Per tornare al quesito iniziale, nell’epoca della “grande disintermediazione”, è certamente difficile fornire una chiave di lettura tale da offrire nuove certezze. Lo sviluppo delle nuove prassi territoriali si muove però nella direzione di un allargamento dei confini classici dell’azione sindacale (ma anche di altri attori sociali). Nello stesso tempo, c’è la convinzione che le parti sociali possano fare molto, se in grado di rivitalizzare le proprie strutture, intercettando i nuovi bisogni che solo territorialmente possono emergere, adeguando i propri strumenti, anche organizzativi oltre che contrattuali, e rilanciando con forza gli obiettivi per cui sono nate e si sono sviluppate.

In altri termini, ai tentativi in atto di dare vita a decisioni senza organizzazioni (appunto, la “disintermediazione”), messi in campo soprattutto dai soggetti politici,  il dibattito e le prassi indicano una chiara reattività degli attori sociali locali (non solo di quelli sindacali). Essi stanno provando – in modi diversi e non ancora coordinati – a rilanciare la presenza dei soggetti collettivi di rappresentanza intorno a nuovi temi, a nuovi beni comuni, dai quale traspare il tentativo di rilanciare, ma nello stesso tempo rideclinare, la loro azione. Questo appare il messaggio più promettente per gli studiosi, ma anche per gli operatori: l’ambito locale-territoriale appare un guscio sempre più ricco di esperienze non solo difensive, ma pro-attive, per ripensare – aggiornandole – le funzioni delle grandi rappresentanze sociali, costruendo nuove reti contrattuali, che possono essere accompagnate anche da nuove reti organizzative e di supporto.

*Docente di Sociologia economica presso La Sapienza Università di Roma
**Assegnista di ricerca in Diritto del lavoro presso l’Università di Verona