La sanità pubblica italiana rischia di scomparire. Uccisa dai tagli e dalla miopia dei decisori politici che – negli anni – l’hanno progressivamente svuotata, fino a mettere in pericolo una delle più grandi riforme del secondo dopo guerra, quella che vide nel 1978 l’istituzione del servizio sanitario nazionale e naturalmente, prima ancora, l’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Anni di tagli, di regioni costrette a piani di rientro lacrime e sangue hanno prodotto i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Come rilevato dall’ultimo rapporto del Censis, in Italia undici milioni di cittadini rinunciano a curarsi per motivi economici: 2 milioni in più del 2012. L’ultima novità riguarda l’ennesima riduzione del Fondo sanitario nazionale (Fsn) che, dopo l’accordo in Conferenza delle Regioni del 23 febbraio, subisce un’ulteriore decurtazione di 422 milioni, passando così da 113 a 112,5 miliardi.

L'inchiesta in podcast

Ma i tagli, le riduzioni non riguardano solo le risorse a disposizione del Fondo sanitario nazionale. Toccano da vicino anche i lavoratori. Meno addetti vuol dire meno servizi e un grande favore alla sanità privata, che ringrazia. Per comprendere la dimensione del fenomeno sono utili i recentissimi dati del Conto annuale dello Stato elaborati dalla Fp Cgil. Dal 2009 a oggi la sanità pubblica ha perso 50.000 lavoratori, 10.000 solo nel 2015. Tra questi, 8.000 medici, oltre 10.000 infermieri e 2.200 operatori di assistenza. “Questi dati sono drammatici – commenta Francesca De Rugeriis, responsabile sanità per la Fp Cgil –.  La diminuzione delle risorse investite per la salute e la riduzione dei lavoratori fanno sì che le persone siano sempre più in difficoltà, che le liste d'attesa si allunghino sempre di più e che le risposte che i cittadini chiedono non arrivano”.

Negli ultimi sei anni la sanità pubblica ha perso 10.000 infermieri, 8.000 medici e 2.200 operatori di assistenza

In questa difficile situazione nelle scorse settimane il governo ha annunciato trionfalmente l’ampliamento dei Lea, cioè dei livelli essenziali di assistenza, le prestazioni che il sistema è tenuto a fornire. Sicuramente è una notizia positiva. Ci sono novità importanti, per esempio l’introduzione della cura delle ludopatie. “Ma il fabbisogno previsto dal governo per i nuovi Lea – spiega Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell'organizzazione sanitaria all'università Tor Vergata di Roma –, cioè 800 milioni, è assolutamente inadeguato: le Regioni stimano che servirebbe almeno il doppio. Se a questo aggiungiamo la drastica riduzione del personale, il rischio è che si tratti di un’operazione nominalistica. Poi ci sono gli squilibri territoriali: già ora sappiamo che almeno otto regioni non saranno in grado di garantire i Lea. Insomma: bisognerebbe fare un ragionamento serio e stabilire quante risorse e quanti operatori sono necessari per garantire i servizi che si dice di voler offrire”.

Per Cavicchi, le prestazioni sanitarie, i Lea “non vanno presi come una lista di cose da fare. Sono il risultato di un contratto sociale, hanno una dimensione politica che deve essere riconosciuta. Lo Stato legge la domanda di salute e in base a questo decide attivando una negoziazione sociale. Giusto dunque che Cgil, Cisl e Uil abbiano scritto una lettera al ministro rivendicando di voler dire la loro sui Lea ai quali, appunto, va restituita una dimensione politica”.

Lo studioso non è però particolarmente ottimista sulla partita risorse. “I tagli sono ovunque e costanti – attacca –. Anche l’accorpamento delle aziende sanitarie, da 600 a 80, lo è. Si tagliano i posti letto (71.000 dal 2008 a oggi), gli ospedali. È un taglio anche il decreto sull’appropriatezza delle cure, che costringe i medici ad attenersi a linee guida rigorose, indipendentemente dalla complessità dei casi clinici. Per me tutto questo indica una volontà politica precisa: tagliare e favorire il privato. C’è solo questo: non esiste alcun ragionamento positivo di costruzione e programmazione. Sarò drastico: se andiamo avanti di questo passo perderemo la sanità pubblica”.

Avanza il precariato
I segnali non sono incoraggianti e arrivano da tutta Italia. Il 21 febbraio all'ospedale Ingrassia di Palermo si è svolto un sit-in dei lavoratori. Mancano infermieri, operatori sociosanitari, ausiliari, amministrativi. I turni di diversi reparti molto spesso sono garantiti con la presenza di un solo infermiere o comunque con un numero di operatori insufficienti per il fabbisogno minimo. “In tali condizioni – denunciano i sindacati –, anche le fisiologiche assenze per ferie o malattia rischiano di pregiudicare quotidianamente i turni di lavoro e il normale andamento dell’attività. I sindacati di Roma e Lazio hanno da poco scritto a Lorenzin e Zingaretti denunciando una situazione per la quale tra il 2006 e il 2015 sono stati persi 10.000 operatori, il 19 per cento del personale, e, senza interventi, nel 2018 le perdite arriverebbero a quota 15.000. “Un simile scenario – scrivono – metterebbe la parola fine alla sanità pubblica in questa regione”. Quasi ogni regione ha la sua pena. “In Puglia mancano 500 medici e con il blocco del turn-over l’età media di chi è in servizio è di 52 anni – ci dice Simone Colelli, medico anestesista agli Ospedali Riuniti di Foggia –. Se aggiungiamo la carenza di infermieri, possiamo dire che questa situazione, se non si agisce, porterà al collasso dell’intero sistema”.

LE ALTRE INCHIESTE

Non è difficile immaginare come le Regioni stiano cercando di barcamenarsi in questa situazione. Al primo posto, come al solito, c’è il ricorso al precariato: “Tra il 2014 e il 2015 la quota di personale non stabile, interinali, co.co.co. e tempi determinati è aumentata in sanità di 3.500 unità – riprende De Rugeriis –. Oggi, complessivamente, nella sanità i lavoratori precari hanno raggiunto quota 44.000. Crescono figure che fino a poco tempo fa difficilmente avremmo visto nel pubblico impiego, per esempio i lavoratori interinali. Ma questo può rappresentare un serio problema. A cominciare dalla continuità del servizio: queste persone vengono reclutate per affrontare i picchi di emergenza, non c’è pianificazione, programmazione rispetto ai bisogni dell’utenza. E poi, paradossalmente, costano anche di più rispetto a lavoratori assunti. Serve un cambio di passo. Un nuovo patto per la salute, con assunzioni stabili e investimento in formazione. Solo così si potranno garantire i nuovi Lea”.

Tra il 2014 e il 2015 il personale non stabile è aumentato di 3.500 unità. I precari in sanità sono ormai 40.000

Un caso interessante è quello dell’Isola d’Elba. Una realtà particolare che sembra però esplicitare tutto quanto detto finora. Nel contesto di un piano di riorganizzazione territoriale che “non rispetta gli impegni della locale azienda Usl”, secondo la denuncia che arriva dalla Fp Cgil isolana, le criticità aumentano d’estate: “Ogni volta è sempre la stessa storia – racconta Simone Assirelli, operatore socio-sanitario e delegato Fp –. L’incremento delle presenze è assolutamente prevedibile, ma, anziché attingere alle graduatorie, all’ultimo momento si chiamano lavoratori interinali per tappare i buchi”. Per il resto i problemi sono tanti: manca un Pronto Soccorso adeguato e sono attive solo due ambulanze, ma con due soli infermieri, “e se uno si ammala non sappiamo come sostituirlo”, chiosa Assirelli. Che aggiunge: “L’ospedale ha solo otto posti letto, pochissimi per una realtà con tanta popolazione anziana come la nostra, e di inverno la riduzione dei collegamenti rende difficile organizzare turni per chi viene dalla terra ferma, giacché non esistono foresterie o stanze in cui poter far dormire il personale”.

Sull'Isola d'Elba d'estate è ormai normale l'utilizzo di lavoratori interinali

A fronte di una riduzione di servizi, denuncia il sindacato “nessuno si preoccupa delle spese aggiuntive di chi deve spostarsi lasciando completamente a carico dei cittadini le spese di trasferimento al di fuori dell'Elba, siano familiari che devono seguire parenti bisognosi di cure o utenti che hanno bisogno di fare esami clinici. I cittadini elbani devono pagare di tasca propria ogni spostamento, non è garantito loro neanche il passaggio nave, benché non sia una loro scelta il fatto di dover lasciare l'isola per avere garantito il diritto alla salute”.

Largo ai privati
L’altro escamotage a cui ricorrere per ovviare a queste difficoltà – ma anche, probabilmente, uno degli obiettivi impliciti del progressivo svuotamento della sanità pubblica – è quello di lasciare sempre più spazio al privato che, visti anche gli aumenti dei ticket e le lunghe liste d’attesa nel pubblico, è sempre più competitivo. È questa la soluzione che ha proposto il governatore della Liguria, Giovanni Toti, attirandosi strali e minacce di mobilitazione dai sindacati. La giunta regionale ha annunciato di voler privatizzare il 15 per cento del comparto sanitario, iniziando con l’ipotizzare la cessione degli ospedali di Bordighera, Albenga e Cairo Montenotte.

Una strategia questa annunciata nel Libro bianco dello scorso anno, mentre il debito sanitario, denunciava l’opposizione, era arrivato in soli 12 mesi a 150 milioni di euro. Per i sindacati non c’è nessun progetto d’integrazione pubblico-privato, ma, semplicemente, tagli integrati dal privato. “Sono anni che incalziamo la Regione con proposte di riorganizzazione anche dei servizi ospedalieri per riorientarli verso il territorio – racconta Fulvia Veirana, segretario generale della Fp Cgil ligure –. Nulla di tutto questo è stato fatto, da noi non è stato nemmeno applicato il decreto Balduzzi. Tutto è stato lasciato com’era, compresa la carenza di risorse e personale: solo di infermieri ne mancano 650, per dire. E ora Toti tira fuori l’uovo di Colombo della privatizzazione per cercare di evitare di incappare nelle procedure di rientro dal debito”.

Il governatore della Liguria ha deciso di privatizzare il 15 per cento della sanità regionale a partire da alcuni ospedali. Dura l'opposizione dei sindacati

Il governatore, con una strategia da marketing, sostiene che grazie alla privatizzazione i piccoli ospedali citati potranno avere finalmente un pronto soccorso: “Ma è puro maquillage – attacca la sindacalista –. Senza reparti di rianimazione o di chirurgia vascolare, ad esempio, un pronto soccorso è monco. L’unico risultato di questa operazione sarebbe quello di cedere al sistema privato alcune prestazioni più costose che oggi il pubblico fornisce, togliendo così ulteriori risorse al sistema e rischiando di depauperare ospedali di grande livello come il San Martino e il Gaslini”.

Insomma: pochi, stressati da turni massacranti, vittime di tagli continui e, in aggiunta, anche senza contratto da sette anni: è questa la situazione del lavoratori della sanità italiana. Dopo l'accordo quadro di fine novembre di passi avanti ne sono stati fatti. “È un diritto che ci viene negato da troppo tempo – riprende De Rugeriis – e che dobbiamo assolutamente riprenderci. Chiediamo dunque che il governo invii subito all’Aran la necessaria direttiva. Così come abbiamo bisogno di riprendere una fase di contrattazione: i lavoratori del comparto devono essere parte attiva di un processo di riorganizzazione che consenta di far funzionare al meglio la nostra sanità, a cominciare dai nuovi Lea”.