La premessa è che il jobs act non farà bene al paese. Perché liberalizza i licenziamenti, precarizza il contratto a tempo indeterminato, indebolisce il sistema di protezione sociale dei lavoratori. Insomma – la posizione del sindacato su questo è ben nota - è una norma contro il Lavoro. Di conseguenza il Lavoro e le organizzazioni che lo rappresentano devono mettere in campo una strategia di risposta, che sfrutti tutti gli strumenti possibili per difendere e riconquistare i diritti.

Ma quali sono questi strumenti? L’interrogativo è stato il vero filo conduttore dell’iniziativa organizzata giovedì 12 febbraio dalla Cgil dell’Umbria a Perugia, un seminario pubblico molto partecipato, che ha visto confrontarsi sul tema esponenti del sindacato e giuristi, che hanno analizzato gli aspetti più controversi della nuova normativa. “Una legge pensata e costruita sulla pelle dei lavoratori - ha detto nella sua relazione introduttiva Giuliana Renelli, segretaria regionale Cgil – che sottende un’idea di sviluppo del paese che non punta sulla qualità, ma accetta un ruolo subalterno rispetto ad altre economie più forti”.

Contro il Jobs act serve una “strategia di resistenza costituzionale”. Questa la definizione usata dal professor Stefano Giubboni, docente di Diritto del Lavoro presso l’Università degli studi di Perugia, che insieme ai colleghi Carlo Calvieri, docente di diritto Costituzionale sempre dell’Ateneo perugino e Andrea Lassandari, coordinatore del corso di laurea in Consulenti del lavoro e relazioni aziendali presso l’Università degli studi di Bologna, ha letteralmente “demolito” da un punto di vista giuridico la nuova riforma del lavoro.

I tre giuristi hanno indicato “clamorosi dubbi di costituzionalità” sia per gli eccessi di delega che per violazioni di principi costituzionali o del diritto europeo ed internazionale. Un esempio è quello del licenziamento per ragioni disciplinari, nel cui caso, leggendo il testo della nuova normativa, l’onere della prova della violazione che è causa del licenziamento sembrerebbe spostato dal datore di lavoro al lavoratore, che dovrebbe dimostrarne, direttamente in giudizio, l’insussistenza. Vi è poi la questione, ancor più clamorosa secondo i giuristi, dell’impossibilità per il giudice di valutare la proporzionalità della sanzione rispetto alla violazione contestata, con evidente lesione del principio costituzionale di ragionevolezza.

Ma al di là dei singoli aspetti più evidenti, c’è un giudizio generale molto negativo sulla normativa. Per il professor Lassandari dell’Università di Bologna il Jobs act è una legge “scritta apposta per i datori di lavoro” e il vero nodo sta nel venir meno, oltre che del diritto alla reintegra (che diventa assolutamente marginale), anche della deterrenza al licenziamento costituita dal risarcimento economico, che esce enormemente ridimensionato.

Giudizio estremamente severo, anche da parte del professor Calvieri, costituzionalita dell’Università di Perugia. “Siamo di fronte ad una riforma che non rispetta ciò per cui è stata contrabbandata – ha detto il professore – e che contrasta con principi non solo costituzionali, ma anche sovranazionali. Sull’altare del nostro miglior rating sacrifichiamo così diritti fondamentali e vitali”.

Ricorsi e cause in giudizio sono dunque la prima "gamba" di quella strategia di “resistenza costituzionale” che gli stessi giuristi ritengono necessaria. E per questo, come ha suggerito il professor Lassandari, la Cgil “dovrà coltivare quei pochi lavoratori che intenderanno opporsi ai licenziamenti, anche costituendo un fondo per il loro sostegno economico”. Ma la via legale non è sufficiente.

“Il primo strumento che possiamo mettere in campo per difendere i lavoratori e riconquistare diritti che il jobs act vuole cancellare è la contrattazione”, ha detto nel suo intervento al seminario di Perugia Serena Sorrentino, segretaria nazionale Cgil. Per questo la stagione dei rinnovi contrattuali che è alle porte sarà fondamentale. “Certo – ha osservato Sorrentino - si profila un confronto sempre più impari, nel quale il governo non riveste più un ruolo di osservatore tra le parti, ma ha scelto di schierarsi e ha modificato in questo senso profondamente la funzione del diritto del lavoro, non più indirizzato a sostegno del soggetto più debole, ma al servizio di quello più forte”.

“Le associazioni datoriali – ha detto ancora Sorrentino – oggi si siedono al tavolo di contrattazione sventolando il testo del Jobs act e dicendoci che con quello hanno già ottenuto tutto ciò di cui avevano bisogno. Ma è proprio con la contrattazione, quella nazionale e soprattutto quella di prossimità e aziendale, che noi dovremo cercare di recuperare quei diritti che la legge ha cancellato”.

Sorrentino ha citato ad esempio lo strumento della formazione professionale: “Non firmiamo più accordi – ha suggerito – se non c’è una clausola che impedisce il demansionamento di chi viene formato, visto l’evidente controsenso che si genererebbe”. Ma questo è solo uno dei possibili "esperimenti". Ci sarà da “inventare forme di contrattazione nuove e differenti”, ha detto ancora la segreteria Cgil, perché questo “è l’unico strumento in nostro possesso per iniziare a dare prime risposte di contrasto diffuso al Jobs act”. “Sappiamo che sarà una sfida molto difficile – ha concluso Sorrentino – ma è nostro compito batterci per ricostruire un diritto che ridia dignità al lavoro”.