Il ruolo che le nuove Città metropolitane assumeranno nel nostro Paese è ancora condizionato da molti gradi di incertezza. Sul piano delle risorse, prima di tutto, ma anche delle funzioni e competenze che la riforma costituzionale attribuirà o sottrarrà a questo costituendo ente. Persino le modalità di scelta del sindaco e degli organi di governo sono, al momento, differenti (tra elezione diretta e indiretta), in attesa di una legge nazionale che definisca questa materia, almeno per le Regioni a statuto ordinario.

Sullo sfondo resta irrisolto il tema, niente affatto secondario, della governance, ovvero del rapporto (gerarchico, collaborativo, complemantare, integrato) tra le deliberazioni della Regione e quelle delle Città metropolitane. E ancor di più tra le deliberazioni del governo metropolitano e quelle dei Comuni minori che compongono la Città metropolitana stessa. Insomma, oggi non siamo ancora in grado di dire se quella in atto sia una classica riforma “all’italiana” (“tutto cambi perché nulla cambi”) o un’innovazione effettiva di governo dei territori coerente con il principio, costituzionale ed europeo, della sussidiarietà.

Alcuni segnali sembrano andare in quest’ultima, auspicabile direzione. Lo strumento del Piano strategico triennale (Pst), atto “obbligatorio” di indirizzo per le funzioni di tutti i Comuni della Città metropolitana, si può configurare come una potente leva di coordinamento della gestione dei servizi pubblici, della mobilità e viabilità per l’intera area metropolitana. Ancor di più l’idea di rendere omogenee, attraverso il Pst, la pianificazione urbanistica dei singoli Comuni con la pianificazione territoriale, immaginando in qualche modo (sono parole nostre) un Piano regolatore generale di area vasta. Non è certo un caso che i sindaci dei Comuni capoluogo delle Città metropolitane, assieme all’Anci – per la verità, senza il contributo dei Comuni minori –, abbiano voluto già descrivere compiutamente in un “Libro bianco sulle Città metropolitane” (2016) potenzialità e problemi della riforma istitutiva e tracciato i suoi indirizzi applicativi con il progetto “Start City”.

Se le Città metropolitane diventeranno enti di pianificazione territoriale e interlocutori veri e vicini ai cittadini dipenderà da molti fattori. Tra questi, anche dal comportamento dei soggetti sociali presenti nel territorio, a partire dai sindacati e dalle loro capacità di relazione. Sarà allora utile sperimentare, proprio con le costituende Città metropolitane, una nuova stagione di contrattazione sociale territoriale finalizzata alla creazione di nuove opportunità di lavoro e di sviluppo, in coerenza con il Piano del lavoro della Cgil. Su quali temi? In Italia (ma non solo) la politica ha scoperto nel 2016 che esiste una “questione sociale” cui nessuno dà risposte, sia in ambito nazionale che nelle città. I corpi sociali intermedi, soprattutto un sindacato radicato e generale come la Cgil, questo tema lo conoscono bene e ne misurano la “febbre” ogni giorno, non solo alle scadenze elettorali.

I bisogni sociali sono molto cambiati negli anni della crisi (per fattori economici, anagrafici e migratori), i bisogni del lavoro si sono mescolati a quelli dei cittadini (per scomposizione, svalorizzazione e precarietà del lavoro) e l’insieme di questi bisogni è meno rappresentato e meno soddisfatto di prima (per l’indebolimento sindacale e per lontananza ed estraneità della politica dalla società). Quello dei nuovi bisogni delle persone (un nuovo welfare omogeneo e diffuso) e dei bisogni dei territori (un nuovo sviluppo sostenibile) sono i punti da cui partire per confrontarsi con le Città metropolitane. I temi da indagare e trasformare in richieste e proposte di politica sociale ed economica, con l’idea che i bisogni locali costituiscano la “domanda” anche economica che può aprire nuovi mercati locali.

Asili nido, domiciliarità delle cure, edilizia sociale, trasporti e mobilità, rifiuti, bonifiche, riqualificazione urbana, risparmio energetico, sono temi da declinare localmente e tradurre in risposte più adeguate ai bisogni delle persone e del territorio, con progetti innovativi in grado di creare lavori di qualità. Se avviata in maniera coordinata nelle 14 Città metropolitane italiane, questa forma di contrattazione territoriale può essere in grado di rinvigorire il rapporto tra sindacati e cittadinanza, di cui quella del lavoro è componente essenziale (anche se non l’unica). Su questa strada il sindacato deve però superare due limiti, uno interno e uno esterno.

Il primo dipende dal fatto che non si possono trattare i temi sopra indicati senza l’adesione, l’apporto diretto delle categorie interessate e delle loro conoscenze. Un deficit di confederalità che va superato, per evitare conflitti interni. Il secondo è legato al fatto che la rappresentanza sociale non è scontata e va conquistata con il coinvolgimento dei cittadini e delle principali organizzazioni sociali presenti nel territorio. Un limite di partecipazione che il sindacato può contribuire a rimuovere a beneficio della democrazia e della coesione sociale.