Dev’essere stato nell’autunno 1961 (avevo quasi 12 anni) che mio padre, di primo pomeriggio come faceva sempre, mi portò al cinema, a vedere “Banditi ad Orgosolo”. Lo ricordo benissimo. Sassari, il cinema-teatro Ariston, la pellicola in bianco e nero (ero abituato a vedere gli western in technicolor), una colonna sonora essenziale, ritmata dai campanacci delle pecore nella solitudine del Sopramonte. Fu, per me bambino, indimenticabile.

Ragazzino cresciuto in città, avevo del mondo pastorale, che pure circondava allora Sassari molto più di oggi, un’idea meno che vaga. Di lì a poco, saggiamente, papà cominciò a condurmi con sé quando, il sabato pomeriggio, con la 600 comprata di fresco, raggiungeva Bonorva, dove aveva aperto con un collega un piccolo studio di avvocato: e, senza dirlo, fece in modo che assistessi alla sfilata dei clienti, e alle conversazioni in sardo, e che vedessi qualche volta (anche quella fu un’esperienza) le vigorose strette di mano che suggellavano l’intesa tra cliente e avvocato.

Il film di De Seta – ricordo – mi colpì moltissimo. Girato interamente ad Orgosolo, era la storia di Michele, un poco più che ragazzo (l’attore barbuto che lo impersonava era forse l’unico semi-professionista di un cast tutto tratto dalla realtà del paese) che, sospettato ingiustamente di furto di bestiame e poi addirittura di avere ucciso un carabiniere, era costretto suo malgrado alla latitanza, in compagnia del fratello minorenne. Vittima innocente di una sequenza di disgrazie rovinose, sino a condurlo, quasi senza che egli stesso se ne rendesse conto, alla tragica sorte del bandito. Una storia asciutta, magistralmente raccontata senza alcuna retorica, dolente e al tempo stesso commovente.

E sullo sfondo il mondo piccolo e immenso che Antonio Pigliaru, nel libro sulla vendetta barbaricina come ordinamento giuridico edito solo qualche anno prima, aveva chiamato la società del “noi pastori”: la società separata e perseguitata della Barbagia, e forse dell’intera Sardegna pastorale.

Vittorio De Seta, 88 anni, è morto in questi giorni a Catanzaro. A lui tanti ragazzi sardi com’ero io allora debbono qualcosa della loro formazione.