A livello globale, il 2014 è stato l’anno più caldo della storia. L’aumento della temperatura terrestre è responsabile dell’incremento nel numero e nell’intensità degli eventi catastrofici che colpiscono il nostro pianeta: alluvioni, uragani, desertificazione e, di conseguenza, siccità, scarsità alimentare, migrazioni climatiche (organismi Onu stimano circa 250 milioni di rifugiati climatici entro il 2050). L’Ipcc, il panel scientifico intergovernativo dell’Onu, ci dice che il surriscaldamento globale è la conseguenza delle attività umane, in particolare le emissioni di gas a effetto serra e la deforestazione. Per questo è ormai generalmente invalsa l’opinione secondo cui per contrastare gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici occorra cambiare radicalmente il modello di sviluppo verso un’economia a basso contenuto di carbonio.

Il limite di aumento massimo indicato dalla scienza per la sopravvivenza del pianeta è di 2 gradi (se possibile, 1,5). Al momento 120 paesi, che rappresentano l’87% delle emissioni globali, hanno presentato impegni volontari di riduzione delle emissioni in vista della definizione dell’Accordo di Parigi 2015, che – secondo stime – porterebbero a un aumento della temperatura globale di 3-3,5 gradi. Impegni che, se fossero confermati, trasformerebbero l’accordo in un totale fallimento. Il fatto è che il testo in elaborazione, oltre a non avere nessuna ambizione in termini di riduzione delle emissioni, non ha nemmeno natura giuridicamente vincolante. Si parla di contributi volontari determinati a livello nazionale, da rivedere periodicamente, senza alcun impegno concreto, né alcuna sanzione in caso di mancato rispetto degli stessi. Non solo. Non è previsto nessun serio impegno finanziario per il sostegno nella transizione per i paesi più poveri e vulnerabili, né per la giusta transizione dei lavoratori coinvolti nei processi di trasformazione.

La lotta per la giustizia climatica è strettamente interconnessa alla lotta per la giustizia sociale, per la piena occupazione, per la difesa dei beni comuni, per la sicurezza alimentare, per l’autodeterminazione dei popoli. La transizione a un nuovo modello economico a basso impatto di carbonio apre un’opportunità irripetibile di tutela del pianeta e del clima e, allo stesso tempo, di creazione di nuova e qualificata occupazione. La lotta per la giustizia climatica racchiude in sé la lotta per cambiare l’attuale modello di sviluppo, che ha causato la gravissima crisi economica, ambientale e sociale in atto, prodotto disoccupazione e aumento delle disuguaglianze. Il movimento sindacale globale è fortemente impegnato nella lotta per la giustizia climatica e la Cgil è, in Italia, fra le organizzazioni e associazioni che nel giugno scorso hanno costituito la Coalizione italiana clima (http://www.coalizioneclima.it/), che sta organizzando per il 29 novembre la Global climate march ai Fori imperiali a Roma, tappa di avvicinamento alla XXI conferenza Onu per il clima, che si svolgerà a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre, nell’ambito della quale è prevista la definizione dell’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale vincolante per tutte le nazioni.

 

*Simona Fabiani e Domenico Di Martini fanno parte dell'area politiche di sviluppo-ambiente e territorio della Cgil nazionale