Al cimitero di Camporeale, lo scorso 1° aprile, insieme ai dirigenti della Cgil e al sindaco, c’era anche l’anziano sacerdote don Luigi Accardo a ricordare Calogero Cangelosi, il segretario della Camera del lavoro assassinato 69 anni fa dalla feroce mafia del feudo. È venuto spontaneamente (“ho visto il manifesto e mi è sembrato giusto essere qui con voi”, ha detto), ha letto alcune righe del suo libro sulla storia di Camporeale, dove parla di Cangelosi (“uomo buono e giusto, morto per il riscatto della povera gente”, l’ha definito), infine ha recitato le preghiere e ha benedetto la tomba e i resti mortali del sindacalista, tra gli applausi dei presenti. Forse senza saperlo, padre Accardo con la sua scelta di benedire Cangelosi ha reso giustizia al sindacalista assassinato dalla mafia. Allora, nel 1948, per il suo funerale, nonostante le disperate implorazioni della vedova Francesca Serafino, il parroco di Camporeale si rifiutò di benedire il corpo martoriato di Cangelosi e non consenti la celebrazione del funerale in chiesa, perché era un uomo di sinistra, scomunicato dalla chiesa cattolica. E a nulla valsero le ingenue implorazioni di Francesca, che disse al sacerdote: "Parri, nni facissi trasiri 'nchiesa. Me maritu era socialista, unn'era comunista". Adesso è toccato a un altro sacerdote della chiesa cattolica riparare a una ingiustizia durata ben 69 lunghi anni. Un fuori-programma molto significativo e apprezzato da tutti.

“Quando me lo hanno portato via, povera anima del Paradiso, io non avevo niente, non possedevo nulla, se non un affitto da pagare e quattro figli da sfamare”, ha raccontato Francesca Serafino a Gabriella Ebano, nell’intervista rilasciata il 24 maggio 2003. “Sono stata costretta ad andare in campagna a lavorare con gli uomini. Ricordo ancora i calli alle mani, le fatiche che ho dovuto sopportare. Ma i miei figli piangevano, volevano il pane, volevano le scarpe, ed io non sapevo più come aiutarli. Mio marito – ha detto ancora Francesca – era iscritto al partito socialista e allora questo era considerato un reato. Lo avevano minacciato, ma lui mi diceva di non preoccuparmi perché non faceva male a nessuno. Calogero era un uomo sincero: quando è morto ha pianto tutto il paese. Ho cercato di ottenere una pensione minima, ma non ci sono riuscita. Poi, su consiglio di mio fratello, con i miei quattro figli ci trasferimmo a Grosseto”. Francesca aprì un cassetto e tirò fuori una cravatta: “Il sangue di mio marito, le ferite, guarda quanti buchi! Quando è morto gli cambiavamo le camice e lui buttava sempre sangue. Le ferite le baciavamo tutte io e mia suocera, il sangue usciva, usciva, passava a fiumi il sangue… Questa cravatta la portava il giorno che morì: guarda quanti buchi! Uno, due, tre, quattro, cinque!”.

Francesca si era sposata con Calogero il 19 settembre del ’35. Non ha dimenticato che tennero in casa il corpo del marito morto per ben quattro giorni, fino a quando il magistrato non si decise a recarsi da Trapani a Camporeale per il sopralluogo di rito. E non è riuscita a dimenticare che il parroco del paese non volle nemmeno autorizzare la celebrazione dei funerali in chiesa. “Mio marito era socialista, non era comunista”, gli disse ingenuamente per convincerlo, ma non ci fu nulla da fare. Gli assassini non riuscì mai a perdonarli. “Come si può perdonare… forse il Signore può perdonare, non io”.

Ma attingiamo ancora ad altri fotogrammi dei ricordi di Francesca. “Legge non ne hanno fatta. Il processo per mio marito non l’hanno fatto. Io sono andata al mio paese, dalla legge, e ci ho detto così: a mio marito lo hanno ucciso e io voglio giustizia! Mi rispose il maresciallo: signora, se ne vada a casa, a noi si comanda. Comanda la mafia! A chi ha ucciso suo marito gli hanno dato quattro tumuli di frumento. Quattro tumuli di frumento per ammazzare una persona! Allora io, non contenta, con i miei fratelli andai ad Alcamo a ripetere la stessa cosa: voglio la legge, che a mio marito l’hanno ucciso. La stessa cosa che a Camporeale: signora, a noi si comanda. Comandano loro, la mafia! Suo marito l’hanno ucciso per quattro tumuli di frumento. Come mi dissero al mio paese, mi dissero ad Alcamo”.

Non c’era legge e non c’era giustizia, allora, nei paesi del feudo, dominati dagli agrari e dalla mafia. E nessuno pagò per il delitto Cangelosi, assassinato la sera del primo aprile 1948 con più di cento colpi di mitra. Non pagò il capomafia di Camporeale, Vanni Sacco, né il grosso proprietario terriero don Serafino Sciortino, di cui Cangelosi era mezzadro. “Un giorno – ha raccontato ancora Francesca Serafino – lo chiama uno. Io ero davanti alla porta, seduta al sole con mio marito, e gli dice: Calogero, ti vuole parlare don Serafino, ma non passare nella strada principale, vieni dalla campagna. E io ho detto a mio marito: ma che cosa vuole questo? Allattavo la bambina piccola che aveva tre mesi. Mio marito avvisò tutti i compagni del Partito socialista, della sezione (forza Signore, forza per raccontare…) Mio marito tardava e i compagni stavano in pensiero. Allora tutti armati di scopette fucili andarono in questa casa di campagna a cercare mio marito e arrivati bussarono: noi vogliamo Cangelosi! E quelli risposero che Cangelosi non c’era. Non c’è? Chissà cosa succederà?. E mentre i compagni aspettavano, lì, sotto il portone, dentro le stanze c’erano i mafiosi. Se tu ti levi dal partito ti mandiamo in America, l’America Argentina, o se vuoi ti facciamo la cavalla, se tu abbandoni la politica. Ma mio marito rinunciò a questa offerta. Erano tutti dentro le stanze, i mafiosi, e chiamarono don Serafino. Mio marito me lo raccontò dopo. Intanto i compagni della sezione lo aspettavano. Mandate Cangelosi, altrimenti succederanno cose brutte stasera!. Il proprietario di questo appartamento fece uscire la moglie. Chissà che dovevano fare! Ma quando lui capì, fece chiamare la moglie che era da una parente e fecero andare fuori mio marito, nella campagna. Ma se non usciva, avevano pronta una macchina per portarlo via come Rizzotto”. Questo è avvenuto quattro giorni prima che l’uccidessero, ricordò la vedova Cangelosi.

Da qualche anno Francesca è morta, sono morti pure i suoi figli, ma ci sono ancora i suoi nipoti a tenere viva la memoria. In particolare, Sonia Grechi, figlia di Vita, che aveva tre mesi quando i mafiosi le uccisero il padre. Sonia è dirigente della Filcams Cgil a Grosseto. L’anno scorso è venuta a Camporeale con la sua famiglia per ricordare il nonno insieme alla Cgil di Palermo. Quest’anno non è venuta, ma ci ha inviato una lettera, che cominciava così: “Mamma, non andiamo in Sicilia a ricordare nonno Calogero?” Sono rimasta stupita, ma anche orgogliosamente colpita da questa richiesta di mio figlio Gabriel, avanzata nell’avvicinarsi del primo aprile. Evidentemente in lui si è insinuato il germe della legalità e del ricordo, favorito dalle celebrazioni che lo scorso anno i compagni della Cgil, in collaborazione con l’amministrazione comunale di Camporeale, vollero organizzare di concerto con le scuole per ricordare la figura di questo straordinario personaggio, di cui oggi si commemora il sessantanovesimo della morte”.

La memoria che si conserva e si tramanda, di generazione in generazione, diventando stella polare di ideali e di valori, che ci indicano la strada, ci insegnano ancora oggi a stare dalla parte giusta della vita. È questo il senso del “calendario della memoria”, che giorno per giorno sta costruendo la Camera del lavoro di Palermo, dove Cangelosi ha un posto importante, insieme a tutti gli altri compagni sindacalisti, caduti sulla trincea dell’onore e della civiltà nel lungo dopoguerra siciliano.