Roma - La storia politica di Breanne Butler (global coordinator della Women’s March on Washington) inizia dalla nausea. Nella metropolitana di New York, la notte tra l’8 e il 9 novembre 2016. Inizia da un impulso incontrollabile al vomito e al pianto. Hillary Clinton ha appena perso le elezioni. Donald Trump le ha vinte, ed è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. È la stessa Breanne a raccontare come andò. Lo fa parlando all’assemblea nazionale dei delegati Fiom, che l’ha invitata a tenere un intervento. “Scesi dal vagone della metro perché stavo per vomitare – ricorda Breanne dal palco romano dell’Ambra Jovinelli – e incontrai altre tre donne nelle mie stesse condizioni”. “Ci siamo ritrovate insieme a piangere. Allora ho capito che bisognava fare qualcosa”.

Così, dall’orlo del rigetto, è nato un evento che ha coinvolto milioni di persone negli Stati Uniti e in tutto il mondo. E un movimento che, da quel 21 gennaio 2017, giorno della Marcia, non si è fermato e promette di crescere.

Butler, chef di mestiere, sorridente e ottimista come solo le persone del suo Paese sanno essere, si presenta così alla platea Fiom: “Ho 27 anni, sono un’americana media, non ho mai fatto politica prima della Marcia, sono nata in Michigan, mio padre era un metalmeccanico e mia madre una casalinga”. Una biografia si può raccontare in pochi minuti. Il padre licenziato quando Breanne aveva dieci anni, “ho dovuto cominciare presto a cercarmi lavoretti”, il liceo e il community college (la scuola pubblica), poi nel 2011 il trasferimento a New York, dove Butler lavora in diversi ristoranti prima di aprire una sua attività in proprio.

Fin qui è una storia individuale americana. Potrebbe essere un film. Invece, all’improvviso, tutto cambia: “Avevo il mio grembiule di cuoca indosso quando arrivò la telefonata che ti cambia la vita – racconta Butler –, mi chiesero di preparare dei biscotti per un evento della campagna di Hillary Clinton. Da quel giorno mi sono resa conto che qualcosa di importante stava accadendo nel mio Paese, che dovevo cominciare a interessarmi alla vita politica. Fino a quel momento ero presa solo dalle mie cose, dalla mia attività”.

La notte della sconfitta rientra a casa e accende il computer. “Sono andata su Facebook e ho trovato un nuovo evento, qualcuno organizzava una marcia di protesta in occasione del giuramento di Trump. C’erano poco più di 600 partecipanti. Ho chiesto: avete bisogno di aiuto?, e l’organizzatrice dell’evento ha risposto di sì. Così ho iniziato ad aprire pagine su Facebook, e ho pensato che il mio account sarebbe esploso, ricevevo centinaia di notifiche da persone che volevano partecipare”.

Ma mettere in moto la Marcia – prosegue – non è stato “un processo definito. Ci servivano organizzatrici, era ovviamente rischioso perché non ci conoscevamo, ma non c’era tempo per conoscerci. Nel giro di 24 ore ho cominciato a ricevere messaggi da tutto il mondo. Da Londra, da Sidney. Mi chiedevano di non cambiare la data dell’iniziativa perché avevano già prenotato i biglietti d’aereo per quel giorno, e questo mi ha fatto capire che era nato un evento globale”.

Nel giro di poche settimane si passa da 20 città a più di duecento in tutto il mondo. La protesta contro Trump diventa un’epidemia clamorosa. Prosegue Butler: “A gennaio, quando sono arrivata a Washington, c’era una coltre nera che avvolgeva la città, l’atmosfera era molto pesante, si respirava un’aria terribile con l’arrivo di Trump alla Casa bianca e l’addio di Obama. Ma poi la manifestazione delle donne ha cominciato a farsi sentire in città, ed è stato come vedere il sole apparire dopo la tempesta. Il 21 gennaio mi sono svegliata alle 4 del mattino e ho visto in tv le prime immagini della manifestazione di Tokyo: vedere sfilare tutte quelle persone mi ha fatto pensare che sì, ce l’avremmo fatta. Alle sei del mattino a Washington già si vedevano le prime donne marciare. Mi sono sporta dalla finestra verso Capitol Hill e c’erano già centinaia di persone. In poche ore siamo diventati un milione”.

Breanne, con fierezza, ricorda un po’ di cifre: “Settecento manifestazioni in tutto il mondo, sette milioni di persone in piazza. Gente che voleva manifestare anche se non era colpita direttamente dall’amministrazione Trump. Mi hanno impressionato le manifestazioni a Mosca, in Palestina e Siria, in Iraq. Le donne hanno veramente rischiato la vita per partecipare”.

“Il motivo per cui abbiamo avuto successo – spiega l’attivista americana ai delegati Fiom – è che siamo riuscite a far incontrare persone con una storia di attivismo con persone come me, che non avevano mai fatto politica prima, ed è stata proprio questa combinazione a creare la magia tra persone comuni. Questo per me è il futuro, non solo per il mio Paese, ma anche per l’Italia e altrove. Ognuno si mobilita contro quello che lo colpisce. In America Latina sono scese in piazza contro la violenza sulle donne, a Tokyo contro una società che chiede alle donne di essere produttive e lavorare pur restando sottomesse. Il nostro non è solo un movimento politico, è un movimento economico, sociale. E questo è solo l’inizio”.

Ora la Women’s March prosegue, e si è data un’agenda sulla quale battersi: “Contro la violenza, per i diritti riproduttivi, per i diritti Lgbt, per i diritti civili, per i diritti dei lavoratori, per i diritti dei disabili e per la giustizia ambientale”. “Abbiamo definito – spiega ancora Butler – un modello che tiene insieme salute, ambiente, sicurezza, riproduzione, parità salariale, diritto all’istruzione. Vogliamo definire una prospettiva globale che ciascuno possa poi declinare nel proprio Paese, nella sua dimensione locale: una grande potenza delle comunità per fermare quelli che vorrebbero manipolarci. E vogliamo che più donne siano elette negli organi di rappresentanza”.

Così nasce un’attivista. Dalla nausea del presente. Dal rigetto. Racconta Butler: “Sono una donna che lavora in un settore altamente maschile. Lotto per i miei diritti. Che nessuno mi dica che non posso avere una privacy nello spogliatoio. Che nessuno mi offra diecimila dollari in meno rispetto allo chef maschio che lavora accanto a me. I nostri diritti riproduttivi hanno dei costi, ma vanno nell’interesse di tutti: non posso avere solo due settimane di maternità dopo aver partorito. Prendersi cura del corpo e della salute delle donne costa di più, ma i diritti delle donne sono diritti umani”, e, “se una lavoratrice nera conquista nuovi diritti, quelli li conquista anche il maschio, mentre al contrario non funziona”.

Così nasce un’attivista, e un movimento. Butler conclude con una promessa: “Il 21 gennaio una nuova generazione è scesa in campo”. E dà appuntamento alla prossima iniziativa: “Il 22 aprile, giorno della Terra, torneremo in piazza. Anche in Italia, a Roma, al Pantheon”.