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Michele Ainis ha passato una intera vita ad occuparsi di Costituzione e di istituzioni di diritto pubblico. Dalla Sicilia si è trasferito nella capitale dove ha insegnato all’Università La Sapienza e a Roma Tre. Tra i suoi libri più recenti Capocrazia. Se il presidenzialismo ci manderà all'inferno, pubblicato da La nave di Teseo nel 2024.
La Costituzione, quella conquistata dopo 20 anni di limitazione dei diritti e delle libertà individuali con la Resistenza antifascista, assegna ai cittadini e alle cittadine la sovranità. La partecipazione al voto è uno degli strumenti per esercitarla. Ma cosa significa partecipazione?
L’articolo 1 della Carta del ‘48 afferma che la sovranità appartiene al popolo. Una cosa che ci appartiene dobbiamo usarla, altrimenti rimane impolverata in un cassetto. E come la si usa? La democrazia è una sorta di animale che non esiste in natura, è una creatura con tre zampe. Esistono strumenti di democrazia indiretta, cioè il voto alle politiche o alle amministrative per eleggere un sindaco o un parlamentare. Esistono strumenti di democrazia diretta, tra questi il principale è il referendum con cui il cittadino non delega ad altri la decisione ma decide, si impadronisce della decisione. La terza zampa di questo animale fantastico è la democrazia partecipativa, è l’iscrizione alla Cgil oppure ad Amnesty International o una qualunque associazione per promuovere delle piattaforme politiche. Tutti e tre questi strumenti hanno bisogno di un ruolo attivo. Se il cittadino e la cittadina rinunciano a questo ruolo rinunciano alla Costituzione.
La Costituzione e le norme, però, prevedono che si possa non partecipare al voto. E nel referendum l’astensione ha anche un effetto sulla sua stessa validità.
Sì, questa certamente è una possibilità che rientra nella libertà dell'elettore. Tenga conto, però, che la Costituzione stessa con l'articolo 48 proclama il voto come un dovere. Ora i doveri costituzionali non sempre sono, come dire, difesi da poliziotti e giudici, ma hanno un timbro etico. Faccio un altro esempio: l’articolo 4 prevede il dovere di lavorare. Il lavoro è un diritto, ma è anche un dovere, così come il voto. Se tu non lavori perché vivi di rendita o alle spalle di tua mamma, non è che per questo vieni punito. Però c'è una sorta di disapprovazione dal punto di vista etico, non sei un buon cittadino. Perché il lavoro non è solo un modo per avere un reddito, ma è anche un servizio per gli altri.
Torniamo ai referendum…
Il dovere di voto all’alba della Repubblica era addirittura sanzionato. Il cittadino che non si fosse presentato alle urne per una elezione politica o amministrativa doveva giustificarsi presso il sindaco e nel certificato di buona condotta veniva segnalata la non partecipazione al voto. Erano delle sanzioni blande, ma c'erano. Vennero cancellate nel ‘93. Per quanto riguarda i referendum c’è una particolarità. Per quello più importante, quello che serve ad approvare o respingere modifiche alla Costituzione, il quorum non è previsto, mentre è previsto per il referendum abrogativo. Perché? I costituenti volevano evitare che una legge, magari votata a grande maggioranza del Parlamento, venisse poi abrogata da una esigua minoranza di elettori. O che venissero sottoposte all’attenzione degli elettori questioni poco rilevanti per la vita politica del Paese.
Però rispetto al 48 c’è un’assai minore partecipazione al voto, qualunque sia l’appuntamento con le urne.
È vero, nel tempo si è verificata una progressiva disaffezione alla democrazia, e quindi alla partecipazione elettorale. Nel caso delle elezioni politiche, per esempio, si spiega dal momento che ormai diciamo si diventa parlamentare perché lo decide il capo del partito, non perché lo decide il corpo elettorale. Ed ecco che ormai va a votare un italiano su due, quando va bene. In questa stagione della nostra storia nazionale, raggiungere il quorum è diventata un'impresa pressoché impossibile. Tanto più che negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli appelli al non voto.
Se la disaffezione al momento elettorale è così forte, come sta oggi la democrazia?
È come una chiesa vuota di fedeli, in cui c'è un sacerdote che se la canta e se la suona da solo. Cioè, siamo di fronte a una crisi importante della qualità della democrazia. Le ragioni sono molteplici. Da un lato le cattive leggi elettorali, dal Porcellum in poi, che hanno espropriato gli elettori della loro libertà scelta, dall’altro c’è una deriva populistica e personalistica che ha messo in crisi il Parlamento. L'articolo 70 della Costituzione, ad esempio, dice che la funzione legislativa spetta alle camere. Ma ormai non è più vero, la esercita il governo con i decreti legge.
Allora invitare al non voto, fare propaganda per l'astensione in generale, che rischi ci fa correre?
Fu Bettino Craxi il primo a dire di non andare a votare per i referendum sulle leggi elettorali. La stampa denunciò che quell’invito fosse un trucco e gli elettori e le elettrici si recarono in massa alle urne. L’invito all’astensione è un trucco. È un modo per eludere, per aggirare la regola costituzionale. D'altra parte, quando si celebrò il primo referendum nel 1974, quello sul divorzio, si fronteggiarono i sì e i no. Nessuno pensò di invitare all'astensione. L’invito all'astensione è una frode alla Costituzione. Formalmente, la Carta viene rispettata, ma sostanzialmente viene violentata la regola costituzionale. Quindi l'appello all'astensione è quantomeno scorretto, tanto più quando è elevato il tasso di astensione ‘ordinario’. In questo modo, il non voto di chi regolarmente non va a votare si somma con quello di chi vuole che i referendum falliscano.
E quando sono uomini e donne delle istituzioni a invitare all'astensione? Dal punto di vista della Costituzione, che effetto fa?
Sono colpevole di avere ricordato che esiste una norma, nascosta tra le 50.000 leggi del nostro esuberante ordinamento giuridico, che definisce il reato di incitamento al non voto. È nel Testo Unico delle leggi elettorali del 1948 che è stato poi varie volte corretto, ma non per quella parte. L’articolo 98 del Testo Unico delle leggi elettorali dice che il pubblico ufficiale o qualunque autorità civile, militare o religiosa, che induca gli elettori all'astensione va incontro addirittura una pena detentiva. Quindi la propaganda all’astensione da parte di uomini e donne delle istituzioni o di pubblici ufficiali è considerato un reato penale. E nel 1970, quando venne scritta la legge che disciplina il referendum, questo reato è stato esteso anche all’induzione all'astensione in un referendum. Con questo, naturalmente non voglio assolutamente passare per un ‘manettaro’, non mi auguro pene detentive per nessuno. Però c'è stato un tempo in cui doveri costituzionali erano presi sul serio, e addirittura venivano protetti da sanzioni penali.
I referendum dell’8 e 9 giugno stanno suscitando, almeno in quest'ultima fase, una grande attenzione. Partecipare a questo voto o ai prossimi appuntamenti elettorali è un modo per ossequiare la Costituzione, magari per difenderla?
Assolutamente sì. Aggiungo che bisognerebbe fare qualche qualcosa per rivitalizzare l’istituto referendum, altrimenti questo animale fantastico è zoppo. Certamente bisogna abbassare il quorum e rapportarlo al numero effettivo dei votanti alle ultime politiche nazionali. E si potrebbe anche, se volessimo essere un po’ più coraggiosi, introdurre il voto da remoto. Se questo accadesse, i pifferai dell'astensione spegnerebbero i megafoni, e l'appello all'astensione non avrebbe più grandi possibilità di successo. In ogni caso, sono preoccupato, tanto più che assistiamo a un sostanziale silenzio della televisione pubblica sull’appuntamento dell’8 e 9 giugno. Per questo credo che spingere la gente a ritrovare la voglia di partecipare sia assolutamente fondamentale. Il rischio dello stare a casa e della delega a prescindere è pericolosissimo.