Qualcuno – magari fra quelli che dicono “buttate le chiavi e lasciateli in galera” – dirà che non sono fatti nostri, che non ne sappiamo nulla. Ma pure se non se ne parla mai, anche nelle carceri c’è il lavoro. Duro, sfruttato, sfruttatissimo, mal retribuito, concesso dalle direzioni come un privilegio non come un diritto.

Perché in carcere sono i detenuti a pulire le celle, i corridoi, a portare il vitto, a scrivere le domandine, a tagliare l’erba nei cortili. Con un salario che serve a pagare la permanenza dietro le sbarre e, nel migliore dei casi, a mandare pochi euro a casa. Per quelle famiglie che contavano solo sulle entrate di chi ora è privato della libertà.

Sì, in carcere, a Rebibbia c’è il lavoro. Ed è duro, sfruttato. Senza diritti. Ecco perché chiediamo a chi sta fuori di andare a votare al referendum di giugno. Di andare a votare sì (noi non possiamo farlo) per abrogare le norme che hanno ridotto i diritti sul lavoro, i diritti delle persone che vivono in questo paese. Magari – perché non sperarlo? - far crescere i diritti “fuori da queste sbarre” avrà ricadute anche per chi vive e lavora dietro quelle sbarre.