Come ce la immaginiamo la transizione ecologica del sistema alimentare europeo? Come pensiamo di raggiungerli gli ambiziosi obiettivi della strategia Farm To Fork? Nel giro di poco meno di 10 anni l’Unione Europea si prefigge di dimezzare sprechi alimentari, uso e nocività dei pesticidi, antibiotici; ridurre del 20% l’uso dei fertilizzanti; arrivare al 25% di superficie agricola destinata alle produzioni biologiche. Inoltre si prevede un’azione decisa a favore di imballaggi sostenibili e riciclabili per gli alimenti. Bene. Se domani tutti gli agricoltori e i trasformatori europei, di piccola, media, grande o grandissima scala, si svegliassero con la ferma convinzione che l’ambiente e la salute debbano avere la precedenza su qualunque istanza di carattere economico, potrebbero davvero iniziare a fare il proprio lavoro in un modo radicalmente diverso? No. Per questo si parla di transizione.

È importante capire due cose importanti. La prima è che la transizione ecologica generale non può avvenire se non si mette il sistema alimentare al centro dell’attenzione. Non solo perché la produzione agroalimentare impatta su tanti altri settori (fitofarmaci, confezionamento, salute, trasporti...), ma soprattutto per la banale ragione che tutti i cittadini europei mangiano. Sarebbe quantomeno incongruente portare la sostenibilità in tutti gli ambiti della produzione e dei servizi senza assicurarsi prima di tutto una svolta ecologica in ambito agroalimentare. Avremmo cittadini che usano mezzi di trasporto puliti, vivono in case passive e si vestono in modo eco-friendly, ma tre volte al giorno si cibano grazie ad una filiera responsabile di un terzo delle emissioni di CO2.

La seconda è che la svolta ecologica non è un’inversione di marcia. Non è indietro che dobbiamo tornare. Il sistema alimentare sostenibile che l’Unione Europea sta disegnando e che milioni di cittadini stanno chiedendo da più di cinquant’anni ha bisogno di ricerca, di tecnologia e di formazione.

L’agroecologia, che la Fao, nel 2018 ha indicato come il futuro dei sistemi alimentari globali, è una scienza sofisticata che non perde mai di vista il complesso quadro interdisciplinare in cui si deve muovere con grande rigore. È la scienza delle relazioni biologiche, chimiche, fisiche e di causa-effetto, oltre a quelle sociali, antropologiche, culturali. Servono studiosi, laboratori, campi sperimentali. Servono agricoltori, comunità, normative. Servono università, scuole di agraria, docenti e studenti.

Se qualcuno pensa ancora che si possa svoltare ecologicamente in ambito alimentare senza studiare chimica, biologia, zoologia, fisica dei materiali, ingegneria idraulica e via settorializzando con l’obiettivo di ricollegare poi tra loro i saperi, forse è ora che inizi a studiare l’abc dell’ecologia.

Strettamente legato al mondo della ricerca c’è quello della tecnologia, che produce strumenti per metterli al servizio di un modo sostenibile di produrre, trasformare, distribuire ed acquistare cibo. Cioè di aziende agroalimentari di qualunque scala, e – soprattutto – dovunque siano. Questo ultimo elemento non è un dettaglio. Le aziende situate in aree interne devono essere messe in condizione di utilizzare le tecnologie necessarie ad una svolta verso la sostenibilità. E se queste tecnologie presuppongono la presenza della banda larga, ad esempio, bisogna che si cominci a ragionare su un’idea di “utenze” che insieme ad acqua, luce, gas e fognature preveda anche una connessione di qualità. Altrimenti continueremo a raccontarci la storia delle aree “marginali” e degli “abbandoni” dei paesi, come se si trattasse di un destino ineluttabile e non delle conseguenze di scelte precise dettate da un’idea miope di progresso che troppo spesso e troppo strettamente si è intrecciata con un’idea avida di profitto. Dalle previsioni del tempo al monitoraggio dei parassiti, dal controllo in remoto delle colture al benessere animale, dall’analisi dei suoli alla razionalizzazione dei consumi idrici fino all’ingaggio trasparente dei lavoratori, c’è urgente bisogno di tecnologie all’avanguardia.

Ora: gli operatori del settore e i consumatori, beneficiari della ricerca e potenziali utilizzatori delle tecnologie, sono pronti? Hanno le idee chiare sulla sostenibilità, sulle relazioni tra il cibo ambiente, salute pubblica, la tutela dei diritti, economia complessiva di una comunità? La risposta è no: c’è da ridisegnare un programma di formazione che da un lato investa tutte le scuole e dall’altro offra a chi già opera nel settore le competenze necessarie per utilizzare quanto la ricerca mette a loro disposizione. In questo i sindacati possono avere un ruolo cruciale, ponendosi come protagonisti di un cambiamento che passa anche per la formazione, e che finalmente smonti l’idea obsoleta e inconsistente che si possa creare occupazione e quindi economia solo devastando l’ambiente e – con esso – le società.

Cinzia Scaffidi, docente Università Scienze gastronomiche Pollenzo di sostenibilità ambientale/agroalimentare