L’ufficio politiche di genere della Cgil se lo è chiesto subito, a partire dal lockdown, quando, con l’obiettivo di ridurre al minimo i contagi, il Governo ha invitato le aziende a far lavorare da casa tutti i lavoratori che potessero farlo. Nell’arco breve di pochi giorni, in Italia, siamo così passati da circa 500.000 persone in smart working a oltre otto milioni. La prima notizia da registrare è che, nonostante lo smart working, secondo la legge che lo ha introdotto, sia uno strumento per agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, prima dell’emergenza non erano tanto le lavoratrici madri e non a usufruirne, ma soprattutto gli uomini.

Sarebbe bello pensare che finalmente anche in Italia le cose stanno cambiando e che ci si sta muovendo verso una maggiore collaborazione nei lavori di cura e familiari. Invece, i dati ci dicono altro. Gli uomini che prima del lockdown lavoravano in smart working erano in massima parte lavoratori di età superiore ai cinquant'anni e con livelli di carriera medio-alti. I figli e la famiglia non c’entrano nulla. Un dato, questo, importante, perché spiega  come le imprese, prima dell’emergenza Covid, hanno inteso il lavoro agile: un benefit, un riconoscimento concesso ai lavoratori ai vertici della carriera o comunque in posizioni elevate. E non come prevede la legge istitutiva, un accordo tra le parti.

Ce lo hanno confermato numerose le donne che tra il 20 aprile e l’11 maggio scorsi hanno partecipato al questionario sullo smart working, promosso e proposto da Cgil politiche di genere e Fondazione Di Vittorio per indagare sui pro e i contro del lavoro da casa, e per comprenderne criticità e programmare correttivi. Molte le lavoratrici, madri e non, che hanno raccontato di essersi sentite negare dall’azienda lo smart working. La ragione si trova nel più generale approccio delle imprese italiane alla valutazione delle perfomance professionali, approccio che le donne conoscono molto bene e che ruota attorno al principio che non importa quali e quanti risultati consegui, ciò che conta è il tempo speso in azienda.

È su questa idea che le donne, alle quali la cultura dominante continua ad attribuire in prevalenza il lavoro di cura e familiare che si scontra con le riunioni fiume serali o con le cene aziendali, da sempre vengono penalizzate nei processi di crescita professionale e di carriera. Il lavoro agile nato così per la conciliazione, fino allo scorso febbraio, è stato invece un ulteriore strumento di discriminazione tra uomini e donne sul lavoro. Di più, una beffa.

Ormai, è chiaro a tutti che quello vissuto nei mesi scorsi non era né smart working né telelavoro, ma un basico trasferimento tra le mura domestiche di quella parte di lavoro che era possibile remotizzare. Talmente basico che il 45% dei partecipanti al questionario Cgil/FdV – oltre 6.000 persone, 65% donne, 35% uomini con una distribuzione geografica e per fasce d’età in linea con il panorama lavorativo italiano - ha dichiarato che il lavoro da casa non era cambiato affatto rispetto a quello che svolgeva in ufficio, per il 51% i carichi di lavoro sono rimasti uguali con un ulteriore 29% per il quale sono invece aumentati.

Anche le discriminazioni uomo/donna, a giudicare dalle risposte date, sembrano però non essere cambiate nel passaggio dall’ufficio a casa. Se il 48% degli uomini durante il lockdown disponeva di un computer aziendale, non così per le donne ferme al 42%. Dato che con gli smartphone registra una forbice persino maggiore: il 41% dei maschi dichiara di averne uno aziendale contro il 25% appena delle donne. E nel rapporto con i superiori da remoto, sono soprattutto le donne ad averne registrato un peggioramento nella qualità.

Da altre tabelle e altre risposte, poi, è emerso con nettezza il diverso approccio uomo/donna sia al lavoro professionale che a quello familiare, con le donne che hanno faticato molto a scindere vita personale e lavorativa e che, a differenza dei maschi che hanno registrato un consistente aumento del tempo per sé, hanno finito per dedicare il tempo liberato dagli spostamenti da e per l’ufficio alla casa, al lavoro ai figli. Senza voler trascurare che i risultati dell’indagine Cgil/FdV sullo smart working si riferiscono a un periodo straordinario e a un home working più che al lavoro agile, restano importanti criticità da tenere sotto controllo.

Prima tra tutte la possibilità stessa di accesso allo smart working che, a normativa invariata, non è un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori, ma senza l’intermediazione del sindacato che la legge non prevede, finisce per diventare una concessione. Tema che rischia di penalizzare sensibilmente le lavoratrici. Oggi, a distanza di mesi, con lo spettro dei contagi in risalita e la didattica che si avvia nuovamente a trasferirsi su piattaforma, se non totale, almeno al 75% secondo l’ultimo Dpcm, torna il nodo del diritto o meno al lavoro da remoto.  Sono già molte, infatti, le segnalazioni ai nostri uffici che si occupano di lavoratrici e questioni di genere, che ci segnalano come diverse aziende, pur in presenza di lavori remotizzabili, non stiano concedendo lo smart working.

Resta,questo, un tema che dovrebbe parimenti coinvolgere uomini e donne. Resta che uno strumento, pensato per la conciliazione e d'indubbia efficacia protettiva, sia osteggiato. Lungo è ancora il cammino sulla strada di uno smart working vero, basato su flessibilità organizzativa e postazione di lavoro, strutturato per fasi, cicli e obiettivi e non per tempo trascorso davanti al monitor, riconosciuto come diritto e non come concessione, e paritario. La Cgil, anche guardando in prospettiva alle inevitabili trasformazioni che stanno investendo il mondo del lavoro, deve occuparsi di questo tema. Solo così il lavoro da casa per le lavoratrici e i lavoratori sarà davvero smart!

Esmeralda Rizzi, ufficio politiche di genere Cgil